19 novembre 2015

Subdoli tranelli linguistici

Dopo i fatti di Parigi tutti: dall'uomo della strada al sociologo professionista al politico al commentatore, tutti stanno esternando. Anche io quella stessa sera mi sono sentito di esternare dei pensieri e delle sensazioni, del resto...
Quello che ne esce è un mare magnum di ragionamenti politici lineari, dietrologie, paure, espressioni di pancia, contorti complottismi e chi più ne ha più ne metta.
Tutti dicono un po' di tutto e le voci si perdono nel caos, ed è proprio da questo caos che emergono delle tendenze, delle parole, dei concetti che fanno da aggregatori.

Ad attirare in particolare la mia attenzione è il concetto di estremismo, stigmatizzato come "il problema", o addirittura "il nemico".
"il problema non sono i musulmani, ma gli estremisti" è una delle frasi più ricorrenti, o ancora "non conta se musulmani, ebrei o cristiani, il vero nemico è l'estremismo".
In salsa diversa e con una punta di razzismo si sentono dire frasi tipo "non esistono musulmani moderati, sono tutti estremisti".
In chiave minore, perché si presta meno alle declinazioni e perché è un termine più complicato che "il popolino" mastica male, anche la parola "radicale" sta emergendo come sinonimo dotto di estremista.

Non molti anni fa Grillo, parlando delle prostitute presidenziali diceva qualcosa del tipo "escort niente, sono delle puttane" e proseguiva con l'acuta osservazione che la confusione del linguaggio porta alla confusione dei concetti.

Mi spingo oltre, senza bisogno di scomodare una citazione ad hoc di Chomsky che non ho voglia di cercare, nel dire che le alterazioni del linguaggio hanno una funzione di controllo.
Controllo di chi? La gente si autocontrolla? No, i post che vediamo su facebook o gli slogan ripetuti in televisione sono per lo più prodotti da pochi comunicatori e ripetuti o condivisi come mantra dalle masse.
Quello che mi arriva se tu condividi sulla tua bacheca un bel disegno che parla di "estremisti = male" non è il tuo pensiero è il pensiero di qualcuno che pensa a come rendere virale un concetto e attrarre pubblico, a voler essere buoni, o a rendere virale un pensiero che gli fa comodo, adesso o in futuro, a voler pensare male.

E come diceva Andreotti: "a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca".

Riappropriamoci delle parole per capire i concetti.
Chiedo aiuto alla sempre utilissima Treccani ed al dizionario del Corriere della sera

Radicale, 2° significato: Che concerne le radici, l’intima essenza di qualche cosa

Estremista: Chi assolutizza un concetto, una dottrina; in particolare in politica, chi ha una posizione favorevole a idee e misure estreme e radicali.

Bene, il quadro è completo.

Chi è il nemico? Gli estremisti. Chi sono gli estremisti? Quelli che non scendono a compromessi, quelli che non stanno "in centro".
In Italia chi c'è di "radicale"? La sinistra (oddio...c'è...diciamo che c'è stata, adesso io non so neppure più dove trovarla) e, visto il nome, i radicali (che anche loro, fra cambi di nome ed altre vicissitudini esistono ancora, anche se serve il microscopio per trovarli).
Chi si cerca di dire che non è più estremista, ma si è moderato? Lascio a ciascuno la sua risposta, tanto è stato il mantra alternato del potere degli ultimi 20 anni...e anche più.

Si è cominciato da tempo a dire che radicale ed estremista erano "il male", ora con opera mediatica intelligente si associano le parole a dei fatti eclatanti ed eccoci a dire che solo ciò che è moderato è bene!
Non sto dicendo che chi ha commesso gli attentati non sia estremista, ovviamente. Sto contestando il fatto che il problema sia il fatto che è estremista.

Allarghiamo la prospettiva. Chi fu estremista nella storia? Galileo, per esempio, con il suo sfidare l'ordine costituito. Washington, che ha guidato una guerra d'indipendenza, sicuramente non era un moderato.
Gandhi e Mandela si sono fatti anni di carcere e hanno subito repressioni per le loro idee, senza mai piegarle. Idee estreme, a detta del regime, e anche radicali.

Sostanzialmente non c'è rivoluzione, reale o figurata, politica o ideologica, senza estremismo. Nella storia politica forse la prima vera evoluzione che non sia passata per una "rivoluzione" pare essere l'unione europea, che infatti fatica a decollare, non per mancanza di progetto, ma perché per avvicinare poli distanti e cucirli assieme senza strappare la coperta ai bordi bisogna tirare molto molto piano. Sarebbe più funzionale strappare tutto e rifare, ma fortunatamente l'orrore di una guerra globale tiene lontane queste idee dall'Europa...per ora.

L'estremismo non è un male: è il sale dell'evoluzione. Certo comporta dei rischi, sicuramente è difficile da trattare e da gestire, ma un mondo senza estremismo è un mondo grigio e statico. Dal confronto degli estremi si genera energia.
Il mondo ha bisogno di un polo + e -, per generare la corrente che lo anima. Più ne crea, più è vivace, facendo attenzione a non far scoppiare tutto per un sovraccarico.

Dal confronto fra "boh, va bene anche così" e "sì, facciamo pure cosà, tanto non importa", non nasce nulla, ma a chi deve governare le masse fa comodo che l'estremismo sia eradicato alla base, perché la gente pronta al compromesso è meno difficoltosa da incanalare.
E quindi via alla campagna per cui estremismo = male, radicale = male, moderato = bene, il nemico = estremista, ecc...

Torniamo al punto di partenza: se non si chiama estremismo, come si chiama "il problema", come si etichetta "il nemico"? Una parola in italiano c'è, ma non la si usa mai in questi messaggi massificati. Questa parola è "Fanatismo"
Mi faccio aiutare dal dizionario del corriere, che dà una definizione molto calzante della parola

Fanatismo: adesione incondizionata a una fede o a un'ideologia fino ad annullare completamente la serenità e l'obiettività di giudizio del soggetto

E sottolineo fede o ideologia.

Ora venite a dirmi che è un caso che di centinaia (migliaia) di post che ho letto su facebook volti a dire quale sia il problema nessuno sa abbastanza italiano da trovare la parola giusta ed è solo un caso che tutti parlino solo di estremismo...





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17 novembre 2015

The Lobster

SPOILER ALERT!! SPOILER ALERT!!!

per chi non sa l'inglese: VI ROVINO IL FILM!!



Non cliccate sul leggi altro se non volete anticipazioni e saltate alla recensione qui, se non sapete di cosa parlo. veramente, fidatevi...

E poi a scrivere la recensione è la McGranitt, che a scrivere spacca!!!



Se siete qui avete superato l'alert sopra, quindi iniziamo: ho visto The Lobster, per chi non sa cosa sia, il riassunto #inpocheparole è nel link sopra, cioè, lo ribadisco, qui: http://inpocheparole.com/the-lobster/.

Se non l'avete visto NON LEGGETE e fatevi un favore gigantesco: leggete la recensione e se vi interessa ANDATE A VEDERLO prima. Poi tornate pure qui e leggete il seguito :)



Il film parte in modo geniale. Ricorda uno degli universi allucinati di Dick, immerso in una fantascienza senza troppa scienza e ma molto fanta.

La parte bella è che continua meglio. C'è un crescendo di situazioni spettacolare e tutto funziona alla grande, a patto che vi piacciano le situazioni assurde ed il grottesco.

Come dice la recensione il mondo è distopico nel modo più classico possibile, ossia aderente a un realismo formale in cui alcune paranoie già iniettate nella società reale sono esasperate.


Dopo aver mostrato "il regime", cambio di punto di vista: "la resistenza", che si identifica con la seconda parte del film.

Il film continua a scorrere in modo affascinante, anche se...perde qualche colpo. Inizia la storia d'amore fra il protagonista e quella che sin dall'inizio è la voce narrante e che poi si scoprirà essere una delle resistenti.


Terza parte: si esce dai particolarsmi (la clinica, i ribelli nella foresta), si entra nella società.

Va bene, va bene, ci sta. Il film zoppica ancora di più perché man mano che lo scenario si allarga, le pennellate sono sempre più blande e il resto è lasciato all'immaginazione, guidata dagli elementi già condivisi, ma sono troppo pochi e il livello sociale risulta freddino e piatto.


E poi, quarta parte, che potrei chiamare la sintesi, in cui il protagonista e la sua nuova compagna si ribellano e da azione e reazione cercano di estrapolare, appunto, una sintesi.


Finale.
Titoli di coda.


Ecco, il tema è che in qualche punto fra la fine della seconda parte e la terza parte, cioè chiusa la descrizione della "rivolta" e prima di chiudere la descrizione sociale (come detto incompleta), il film inizia a girare su se stesso.

Uno degli elementi più interessanti dell'utopismo negativo è andare al nocciolo della perversione, sviscerarla e mostrare che, sotto l'apparenza c'è ancora più orrore, oppure allargare il punto di vista e mostrarne l'universalità.

In ogni caso portare l'incubo a compimento.

Non necessariamente in modo esplicito e didascalico, intendiamoci, ma proprio perché si immagina un mondo e dove si iniettano come virus le psicosi sociali che si vedono in nuce nella società in cui si vive,è interessante mostrare come l'infezione possa diventare profonda o diffusa.
Si va cioè al nocciolo del problema o alla sua degenerazione universale.

The Lobster ci illude di andare in entrambe le direzioni, ma poi clamorosamente le manca entrambe.

Ci porta alla società nella terza parte, ma ne mostra solo scampoli: dove ha la possibilità non approfondisce e usa solo qualche suggestione per mostrare che qualcosa, a livello superiore, non va (i poliziotti nel centro commerciale ne sono l'emblema).

La città, però, è completamente di plastica: non ci sono persone per le strade, non ci sono attività, ma non c'è neppure controllo o repressione o....beh, non c'è nulla (si non sono scemo, capisco anche io che si parla di una società chiusa in luoghi d'aggregazione artificiale, ma qui non c'entra nulla e invece che mettere altra carne al fuoco sarebbe il caso di cuocere quella che già c'è).

La profondità è promessa dalla storia d'amore, la quale però si arena su un particolare che viene spesso citato sin dalla prima parte e per me non è ben comprensibile: l'ossessione per avere qualcosa di identificabile in comune per poter costituire una coppia.

Perché? Qual è il pensiero dietro questa ossessione? Qual è la causa di questa regola assunta universalmente?

Non si capisce, non si dice, non si accenna neppure. La si dà per scontata.

Risultato: la profondità si perde al primo strato, dove c'è un assioma dogmatico assurdo senza ragione apparente.

Stiamo parlando di una ossessione del mondo moderno esasperata a dogma esistenziale? Io, sinceramente, non la vedo: intorno a me vedo un mondo felicemente meticcio da tutti i punti di vista. Sì, certo, ci si conosce spesso grazie a qualcosa in comune, ma ci si ama, a volte se non spesso, grazie a qualcosa di complementare.


Ricapitolando doppio fallimento: non si allarga alla società per mancanza descrittiva e non si va in profondità perché non si supera lo scoglio del dogma senza spiegazione.

Il film quindi non ci sbatte contro le nostre perversioni o le nostre paranoie, ma semplicemente racconta un mondo che da fantastico diventa semplicemente inspiegabile e il patto narrativo scricchiola, quasi spezzato.


Potrebbe restare una buona storia, ed in effetti sin quasi alla fine lo è.
Il finale però (spoiler alert, spoiler alert!!!) non mantiene le promesse: si chiude prima della scelta decisiva, lasciando sì il finale aperto alle fantasticherie dei singoli spettatori, ma ancora una volta fallendo sul piano comunicativo.
Quella scelta che il protagonista non fa, puzza di scorciatoia, perché non avrebbe affatto chiuso il finale, ma avrebbe obbligato il racconto a schierasi sul peso quell'inspiegabile dogma ha sul mondo, o almeno sull'universo interiore del protagonista.


Ovviamente questi fallimenti non sono dei motivi per dire che il film è brutto (e, chiariamoci, non lo è), ma sicuramente costituiscono dei problemi che canonicamente sono riservati ai film che non fanno del contenuto la loro forza, dove quindi hanno un peso minore.

Siccome qui a farla da padrone è sicuramente più la sostanza che non la forma, è fastidioso vedere che a conti fatti affascina più la forma della sostanza, che pur sorretta da una visionaria fantasia, risulta annodata sul paradosso in modo sterile.

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14 novembre 2015

Riflessioni sui fatti di Parigi (anche se non sembra)

Non so bene neppure come commentare. Il mio cinismo e la mia esasperata razionalità mi allontanano dal riflettere sui numeri come discrimine. Cercare il bene e il male fuori da sé, o il giusto e lo sbagliato, l'ho sempre visto come uno specchio del non riuscire a definire da soli la propria via e, ancor peggio, del non assumersi la responsabilità profonda e completa del proprio operato (chi mi conosce profondamente da molto sa che è un elemento fondante della mia visione del mondo in generale e della religione in particolare).
Oggi a un cliente ho detto scherzosamente che sarei stato "quello antipatico". Riflettendo sul significato profondo di questa mia affermazione mi sono reso conto che lo sono perché sono quello che strappa via la poesia dalle situazioni e impone (in primis a me stesso) di affrontarle nude e crude, finendo per trovarcisi nudi a propria volta.

Dio è un po' la poesia del mondo: aggiunge un pezzo di incanto, evoca sensazioni ed atmosfere forti ma impalpabili, rende i concetti apparentemente forti, perché interpretabili e pertanto declinabili secondo l'uso più suggestivo o più conveniente, ma in realtà deboli, perché privi di un loro proprio fondamento. Nella poesia non possiamo conoscere il pensiero del poeta, ma solo interpretarlo, spesso guidati da altri che a loro volta non lo conoscono, ma salendo in cattedra acquisiscono un potere che non dovrebbero avere. Se anche sfuggiamo al gregge, diventiamo noi stessi i nostri stessi manipolatori, in un gioco al massacro che sa di follia schizzofrenica.
Lo stesso poeta non può comunicare il concetto evocato meglio di quanto faccia la sua opera e perde potere di fronte ad eteree interpretazioni dei suoi versi, avvincenti quanto intrinsecamente fasulle (inconoscibilità e incomunicabilità,  dal sapore gorgiano, sono altri elementi caratterizzanti della mia visione del mondo, come noto ai soliti).

Il problema è che la poesia, al di là della sua occasionale bellezza e sintesi comunicativa, se diventa il modo di descrivere la realtà invece che un'espressione artistica a suo corollario, si rivela essere un artificio per giustificare la propria mancanza di conoscenza e soprattutto la resa incondizionata nella ricerca di questa stessa conoscenza. La poesia è e deve essere un piacevole di più, forse il più piacevole dei lussi superflui.

Se la poesia non può essere eliminata senza far crollare il castello che agghinda significa che da orpello si è mutata in fondamenta e che il castello si posa su basi fittizie, se non false.

Tolta la poesia da ciò che ci circonda resta una sola cosa da fare: affrontare il mondo là fuori, senza scuse, senza ipocrisie.

Tolto dio dal nostro mondo resta una sola cosa da fare: affrontare se stessi, senza scuse, senza bugie.

Tolto dio quei morti sono un abominio ingiustificabile, e quindi lo si aggiunge nel sistema per far tornare i conti.
Ma dio non è un numero e non può risolvere nessuna equazione dell'animo umano, perché dio non può che essere poesia.

Oggi dio è una poesia tanto evocativa quanto il vuoto che nasconde...ed eccezionalmente brutta.
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