23 gennaio 2020

Prendere gli avversari a pesci in piazza (il nemico del mio nemico)

Tutti quanti, durante la nostra carriera scolastica, ci siamo chiesti, presto o tardi, a cosa diavolo servisse la storia. Fra le risposte più gettonate c'era la sempre verde "a non ripetere gli errori del passato".
In cuor nostro, tutti abbiamo pensato che lo scopo fosse quindi quello di insegnare che valicare le Alpi con degli elefanti potrebbe essere un'impresa complicata, ma caricarli sul traghetto di Schettino potrebbe essere un'alternativa peggiore al problema.

Quando si arriva alla storia moderna, che in molti casi è ancora cronaca, i parallelismi diventano molto più semplici da fare.
Uno di questi, riguarda la strategia politica del considerare il nemico del proprio nemico come un alleato.
Nel secondo dopoguerra, gli americani sostennero l'Iraq contro l'Iran, a sua volta sostenuto dai russi, e finanziarono e armarono i Talebani per contrastare le mire dell'URSS sull'Afghanistan. I russi ed il comunismo erano i nemici, chiunque li contrastasse era per loro un prezioso alleato.
Come queste presunte alleanze si siano torte contro gli stessi americani, dovrebbe essere noto a tutti.

Un movimento popolare, in Italia, si scagliò contro la corruzione di Berlusconi e dei suoi fedelissimi al governo. Un giornalista fece loro da spalla, combattendo la stessa battaglia sugli stessi argomenti.
Dalla sinistra politica, molti elettori hanno cavalcato l'onda del dissenso in chiave giustizialista, pensando di aver trovato un alleato fresco fresco. In pochi, nel popolo abbagliato dalla sua crociata, si sono posti domande sulla parte propositiva di quel movimento, per capire se fossero o meno compatibili con gli ideali di base.
Non lo erano, evidentemente, ma erano il nemico del loro stesso nemico, quindi erano amici.

Ancora in meno si accorsero che il giornalista in questione si dichiarasse apertamente  seguace/fedelissimo di Montanelli, giornalista dichiaratamente di destra, che quando criticò il "Berlusconismo", lo fece proprio da destra, forse unico nel panorama dell'epoca.
Poteva una persona del genere essere un amico? In circostanze normali ogni persona, anche poco ragionevole, avrebbe voluto scavare un po' più a fondo, ma il miraggio di aver trovato un occasionale alleato in una battaglia che sembrava destinata ad essere persa, ha porto i più a sorvolare sui dubbi. Molti, addirittura, non se li sono neppure fatti e sono passati direttamente alla santificazione.

Ora il giornalista segue coerentemente la sua strada, che non ha più grandi punti di contatto con il popolo di sinistra che l'aveva osannato, mentre il movimento... beh, quello è andato al governo con la Lega.
Era tutto chiaro, bastava volerlo vedere. Non c'è stata ipocrisia o finzione, giusto un po' di marketing ben studiato e una narrazione volta ad esaltare le vicinanze rispetto alle lontananze, per abbindolare le masse*.

Potrei continuare con gli esempi, sia internazionali che di politica interna, ma credo sia piuttosto chiaro il punto.

Cosa ci insegna tutta questa "storia" contemporanea?
Che il nemico del mio nemico è il nemico del mio nemico. Punto. Potrebbe essere un amico, potrebbe essere un altro nemico, potrebbe essere semplicemente altro da me, senza una relazione particolare.
Il fatto di avere lo stesso avversario non si porta dietro nessun'altra implicazione sul rapporto fra le parti, soprattutto se ci si limita ad una battaglia specifica.

Quindi il popolo delle Sardine, che si riunisce in piazza per protestare contro un leader dell'opposizione che cos'è? Dipende da dove lo si guarda.

Dal mio punto di osservazione, un po' più a sinistra dell'attuale sinistra parlamentare italiana, ma probabilmente meno di quella extraparlamentare, il movimento delle sardine è un movimento poco decifrabile, ma molto sospetto.
Non c'è una piattaforma politica propositiva condivisa a priori. Agli inizi, raccoglievano solo il dissenso contro Salvini e la Lega. La genesi sembra quindi simile a quella del Movimento 5 stelle, dieci anni dopo.
Una differenze salta subito all'occhio: le sedicenti sardine non c'erano, o erano completamente invisibili, quando Salvini era al governo. Sono saltate agli onori della cronaca quando è passato all'opposizione.
Un movimento popolare che protesta contro un leader dell'opposizione è fatto assai bizzarro. Puzza un po' di repressione, di caccia alle streghe o di squadrismo ben vestito.
A onor del vero, Salvini continua ad essere uno dei politici di riferimento del sistema politico italiano e per questo bersaglio degno di qualunque contestazione civile, ma resta l'anomalia di prendersela con una persona, che, di fatto, adesso non ha nessun potere oltre ad esprimere la sua (rivoltante) idea politica.

Sin qui, comunque, nulla da dire: le sardine si sono riunite intorno a un gruppo di persone e hanno deciso di prendere a pesci in faccia quello che reputano essere il loro nemico. Lui ha risposto coi gattini. Forse il dibattito socio/politico più alto degli ultimi 2 anni, a conti fatti.
Ancora una volta, ma in modo adesso ben più colpevole anche dall'alto, il problema resta la massa di persone che si è associata a un movimento che non conosce, che non è chiaro che piattaforma politica abbia, nel solo nome della lotta al nemico comune.
Anche su questo si potrebbe soprassedere, se non fosse che tante persone si riconoscono nelle sardine, si proclamano sardine, si sono innamorate del nemico del loro nemico, che hanno eletto a miglior amico per la vita, senza neppure conoscerlo.

La storia sta insegnando poco. Possibile? Sì, anzi peggio.
Il M5S aveva tenuto lontani i partiti, in un rigurgito di antipolitica che era un urlo di rivolta e un implicito manifesto politico (che tra l'altro credo che esaurisca completamente la parte propositiva aggregante del Movimento).
Le sardine no: loro hanno un obiettivo solo e circoscritto e strizzano l'occhio a tutti gli altri nemici del loro nemico. Non stanno facendo l'errore di credere che i vari partiti che adesso vanno a braccetto con loro, siano loro alleati: stanno facendo la spesa di seguaci fra persone frustrate che cercano una via di sfogo per la loro rabbia ormai irreprimibile.

I partiti, almeno quelli non di destra, si trovano costretti a giocare la parte degli amici delle sardine, per evitare che il popolino emigri in massa verso chi urla più forte.
Dubito che qualcuno dai piani alti sia veramente convinto che questi pesci lanciati in piazza contro un nemico puntuale, possano essere più che un occasionale rumore di fondo, ma tocca fare buon viso a cattivo gioco.
Del resto la maggior parte dei seguaci del M5S ha un percorso troppo simile per non farsi trascinare in una nuova avventura uguale, ma diversa, forse un po' peggiore nel metodo anche se, sempre forse, un po' migliore nell'assetto politico (sempre dal mio punto di vista).
Chi da sinistra si era mosso verso il M5S e poi se n'era distaccato quando era diventato troppo evidente e insormontabile la distanza ideologica, in larga misura è pronto a rifare lo stesso giro di giostra**.

Solo mesi dopo, a matrimonio già celebrato, plebiscito avvenuto e consenso incassato, arriva forse un manifesto politico, una posizione ufficiale, un'apertura ufficiale ai partiti e, udite udite, l'ipotesi di far diventare movimento politico un movimento di protesta. A chi interessa più? La storia è già nota, basterebbe averla studiata.

Si tratta solo della posizione di un pugno di persone che hanno un bastimento carico di sardine e non hanno paura a usarle: prenderanno a pesci in piazza il loro nemico, con il principale effetto di attirare tutti quelli che si illudono che il nemico del loro stesso nemico, sia il loro nuovo amico del cuore.





*Ovviamente c'è anche chi è veramente convinto di quella visione del mondo e l'ha sposata da subito per quello che era o chi l'ha cavalcata sin quando era comodo e poi è sceso dal carro quando non era più interessato. Si parla per categorie, non della storia dei singoli. Anche fra le categorie, solo una è di interesse per il mio racconto, le altre non influenzano in alcun modo la quesione.

** indubbiamente il fatto di essere passato da sinistra al M5S quando i partiti a sinistra erano una miriade per poi tornare a sinistra con un numero paragonabile di partiti e movimenti, ma quasi tutti diversi nei nomi e con le persone rimescolate a caso, non aiuta a mantenere salda la rotta delle proprie idee...

PS: volevo scrivere questo post da circa 2 mesi. Sono sempre stato svogliato. Ora lo faccio, forse più per ricordarmi, quando lo rileggerò fra un paio d'anni, quello che avevo visto arrivare. Sicuramente 2 mesi fa avrebbe avuto un altro effetto... pace.
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4 marzo 2018

Qui abita un antifascista

Di solito non partecipo alle ondate di buonismo collettivo su facebook: niente bandiere francesi, niente Je suis, niente bandiere della pace.
Non credo che queste forme superficiali di astratta solidarietà abbiano alcun valore.
Questa volta, invece, sto partecipando e mi sento anche di dover raccontare perché.



Ieri è successo a Pavia un gesto apparentemente innocuo*, che però mi ha colpito. Dei topi di fogna con l'uso delle mani**, hanno attaccato degli adesivi con al scritta "qui abita un antifascista" sulla porta di vari personaggi più o meno noti della scena politica/sociale antifascista locale.
Non conosco nessuno degli interessati e non personalizzo il gesto, ma credo anzi che l'aspetto più inquietante emerga astraendo il fatto in sé: delle persone sono state bollate pubblicamente per la loro appartenenza politica.

Ci sono varie possibili chiavi di lettura per il gesto: dall'intimidazione verso il singolo alla creazione di un clima diffuso di terrore (sempre le solite strategie), dalla necessità di visibilità mediatica al confronto di forze in campo. Al di là che credo che sia un gesto controproducente per il loro movimento da decerebrati, non credo che sia accettabile bollare le persone con questi metodi che ondeggiano fra lo squadrismo fascista e la minaccia mafiosa (strano, sempre in gruppo gli insetti).

Impossibile non pensare al triangolo rosso per identificare i comunisti durante il nazismo. Certo, è uno scenario lontano, ma un intento sin troppo evidente.

Come chi mi conosce ben sa, io non amo definirmi antifascista***, non perché ciò che sono non sia profondamente antifascista, ma perché non mi piace definirmi "in negativo", come cioè raccontare a cosa sono contro, invece che a cosa sono a favore.
Oltretutto non mi piace mettermi in gruppi che comprendono persone appartenenti a ideologie che disprezzo non meno del fascismo.

Non credo ne "il nemico del mio nemico è mio amico" e credo che chiunque non abbia vissuto gli ultimi 40 anni con fette di prosciutto molto spesse sugli occhi, si sia accorto di numerosi disastri che questa folle lettura del mondo ha portato (armare gli iraqueni contro gli iraniani, i talebani contro i russi, ...).

Oggi vengono per "loro" e non vanno lasciati soli. Del resto vengono sempre prima per noi, perché lo sanno che altrimenti non glielo lasceremmo fare.

"In Germania, vennero prima per i comunisti
e io non dissi niente perché non ero comunista;
poi vennero per i sindacalisti,
e io non dissi niente, perché non ero un sindacalista;
quindi vennero per gli ebrei
e io non dissi niente, perché non ero ebreo;
infine... vennero per me...
e in quel momento nessuno poteva più dire niente."
Friedrich Gustav Emil Martin Niemöller


E non glielo lasceremo fare.


http://www.lastampa.it/2018/03/03/italia/cronache/a-pavia-case-di-antifascisti-marchiate-con-adesivi-ZCTfq7OAjpwjMxddyedjWN/pagina.html

** recentemente la mia bella m'ha fatto leggere questo articolo: https://www.ilpost.it/matteobordone/2018/02/27/meglio-ripetere/
Io non credo che il problema sia nell'uso dei sinonimi in sé, ma nella scelta dei sinonimi giusti da usare. Alcuni esempi corretti di sinonimi usabili per casa pound, forza nuova e altre formazioni neofasciste, aderenti alla realtà dei fatti, ma non per questo rassicuranti o sminuenti sarebbero: 
neofascisti, razzisti, criminali, pezzi di merda, topi di fogna, pantegane della politica, piaga sociale, sonno della ragione, pazzi violenti, intolleranti, figli della merda, incostituzionali, topi bipedi, dimostrazioni del fallimento del darwinismo, terroni che sognano di essere ariani.

*** Nonostante questo, sono antifascista. Indiscutibilmente.
... E sì, sono sostanzialmente anche (e ancora) comunista.

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1 settembre 2016

Fertility Day: come lo leggo io

Impazza la bufera sul Fertility Day, tanto che il sito è giù, escluso uno splash screen in homepage.
La campagna aggressiva del ministero della salute ha raccolto una quantità di critiche enorme. Che c'è di nuovo? In Italia quasi qualunque campagna comunicativa delle istituzioni viene lapidata nella pubblica piazza, sia quando è sbagliata che quando è giusta: del resto criticare è facile, visto che fare campagne perfette è impossibile, e c'è chi lo fa di professione riuscendo bene a farsi seguire dalle masse.
Detta così è ovviamente semplicistica.

Cosa dice la campagna del Fertility Day? Sin dal nome traspare che l'obiettivo primo non è la natalità ma la fertilità, anche se la natalità è sicuramente fra gli obiettivi secondari. Le critiche però sembrano aver riletto tutta la campagna come se fosse un invito alla procreazione, una sorta di "figli alla patria", di memoria fascista.

Prima ci capire il messaggio, bisogna partire dal dato: perché una campagna sulla fertilità? Perchè in italia nel 2012 ci sono stati 90mila interventi di procreazione assistita, di cui oltre il 60% a carico del servizio sanitario nazionale e comunque rientrano fra le spese deducibili ( http://www.tasse-fisco.com/persone-fisiche/quali-spese-mediche-deducibili-carico/4746/ ). Sempre nel 2012 il 2,2% dei bambini nati è passato attraverso la fecondazione assistita ( http://www.fecondazione-assistita.net/statistiche-e-dati-della-procreazione-medicalmente-assistita/ ). A leggere il dato riportato dallo stesso Fertility Day, 1/5 delle coppie ha problemi di fertilità. Cioè una coppia di amici ogni 5 ha questo problema. Il numero, col dovuto rumore dato dai piccoli numeri, mi torna.
I costi nelle strutture non sono facili da capire, ma si parla di valori che partono dai 2000 euro a trattamento e arrivano spesso a totali oltre i 10000. Viene da immaginare che al di là di chi paga, nel pubblico non possa costare molto meno, quindi di fatto stiamo parlando circa 500 mila -1 milione all'anno, più tutti quelli spesi all'etero, dato che non è facile da trovare con il tempo che posso investire nella ricerca.
Si tratta cioè di una spesa solo in Italia che assomiglia al 2% della spesa che andremmo a risparmiare per il senato con la riforma costituzionale proposta: varrà bene qualche volantino (è una provocazione, ovviamente, ma serve per dare l'idea).

Per chi ha fame di numeri, qui ce ne sono quanti se ne vuole: http://www.iss.it/rpma/index.php?lang=1&id=131&tipo=17

I soldi, però, non la vera spesa del problema fertilità, infatti non è possibile quantificare in denaro il disagio per una coppia che si sottopone al trattamento, spesso per periodi prolungati, con stress e disagi che implicano anche spese a loro volta non quantificabili. E questo percorso arriva dopo la frustrazione del non riuscire a farne a meno, del sentirsi diversi, inadatti, sbagliati.

Il costo economico è alto, quello sociale è altissimo*.

La campagna colpisce chiaro in quei punti dove fertilità e salute si sovrappongono. Lo fa così**:



Poi attacca l'accidia di chi lo vorrebbe ma preferisce farsi ancora una vacanza a Ibiza, sfoggiare un fisico perfetto o semplicemente lascia scorrere il tempo all'infinito:



Quella sul figlio unico è un po' feroce, ma sono solo io che ricordo persone che dicono frasi tipo: "vorrei avere quattro figli, ma non voglio iniziare da giovane tanto al giorno d'oggi si fanno figli sino a 50 anni".
Non manca poi l'importantissimo manifesto per spostare il focus dalle donne verso gli uomini, attaccando un machismo che spesso impedisce di identificare e risolvere il problema clinico, non sociale, anche se causato da quello sociale di una società drammaticamente maschilista:



Un po' come dire: "stronzo, non sei eterno e comunque non sei superman". Ecco, prima lo capiamo e meglio è.

Sin qui il messaggio è chiaro. Da notare e apprezzare la totale assenza della famiglia tradizionale dai messaggi, che segna un vero cambio di marcia della comunicazione in italia.
Non si parla mai della relazione fra i genitori: un passo avanti insperabile solo pochi anni fa, quando c'era il family day. Eppure sarebbe costato poco metterlo e avere l'appoggio di una comunità cristiana assai retrograda, ma numerosa e presente.
Onore al merito: il riferimento non c'è.

Però c'è un riferimento al bene comune e uno alla natalità (procreazione) che ha portato moltissimi a leggere il resto della campagna in questa chiave:


Per la verità, a volerle leggere per bene dicono che lo stato è al tuo fianco, la società pure, ma non fare il minchione: io nell'ultimo spot ci leggo un "non fare figli tanto per farli, la procreazione deve essere cosciente e responsabile", però effettivamente è opinabile.

Io nel fertility day ci leggo questo. Credo di essere abbastanza istruito da non aver ricevuto nessun messaggio utile da questi manifesti, ma credo che sia una buona iniziativa informare, anche con un po' di violenza. 

Io però non sono in target, visto che ho già 2 figlie. Ma chi invece il problema di fertilità ce l'ha già, magari oltretutto non causato da cattive abitudini (vedi il riferimento ad alcol e fumo)? Qui il messaggio fallisce, perché è totalmente assente il messaggio che lo stato è al tuo fianco***. 
E chi un figlio non lo vuole? In teoria la campagna non dice nulla a riguardo, dice che se lo vuoi è il caso che ci pensi da giovane (immagino l'obiettivo sia portare la media del primo figlio nuovamente entro i 30 anni, miraggio ormai lontano se non fosse per gli immigrati). In pratica però dicendo che è un bene comune, la campagna sottende che chi non vuole procreare, sta sottraendo qualcosa al paese. A onor del vero dice che la fertilità è un bene comune (e lo è, sia clinicamente che socialmente), non che lo sia la procreazione. 


Insomma formalmente la campagna è corretta, secondo me, ma presta il fianco alle critiche, che spesso però partono dalla volontà di leggere quello che si vuole leggere invece che quello che c'è scritto...




*dov'è questa gente su facebook, si chiederanno i soliti bontemponi amanti dei social? Per taboo, per cultura o per motivi personali di privacy, spesso non viene sbandierato il fatto di fare ricorso alla fecondazione assitita. Per trovare la voce immensa di queste persone bisogna andare nei blog di settore, dove non c'è l'associazione immediata fra utente e persona e non c'è il rapporto coi conoscenti e i parenti (entrambi spesso giudicanti, come se ci fosse una colpa...stramaledetta cultura cattolica).
Lì si vedono migliaia di thread che straripano di discorsi, Su facebook no, o solo su gruppi chiusi, dove non sono pubblici. Eccla questa minoranza silenziosa.

** le varie "cartoline" sono dei lanci per gli articoli di approfondimento sul sito, ma il sito è attualmente irraggiungibile a causa delle polemiche sulla rete.

*** del resto poco difendibile, visto che il supporto, che pur c'è, è nazionalmente inadeguato e solo alcune regioni sono veramenete a fianco del cittadino (toscana e lombardia in testa, ma non può essere un tema trattato a livello regionale).
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31 agosto 2016

Un pranzo e dei buoni commensali

Sono questi gli ingredienti che mi danno gioia e mi fanno sentire vivo, felice di essere in mezzo alle persone e lontano dalla gente. Raccontare cose senza senso mettendo nella condivisione del punto di vista il significato, scherzare su un mondo buffo come se non ci fosse quello amaro e poi con quel sorriso ancora impressi affrontare il lato brutto delle cose. Passare del tempo consapevolmente, invece che semplicemente invecchiare inconsapevoli, creare ponti e contatti, mescolare storie, attraversare incroci improbabili.
Guardare video stupidi alla televisione o parlare di zingari e razzismo. Scontrarsi per rimbalzare, scontrarsi per incontrarsi.
Selezionare i raccontastorie ma non la sceneggiatura, cambiare registro e mescolare le carte in tavola, Lasciarsi stupire dal diverso senza temerlo, spendere del tempo con grandi e bambini come se, per pochi attimi, fossero tutti membri alla pari della stessa tribù.

Mi piace preparare i momenti e poi non governarli, mi piace seguire il flusso di una buona situazione, mi piace sentirmi a mio agio nel poter dire le mia e anche nel non dirla. Mi piace quando un errore diventa uno scherzo, mi piace quando si può andare due parole troppo in là e poi recuperare. Mi piace anche non sapere dov'è il troppo ed esplorarsi sino a scoprirlo. Non sono mai stato buono a stare fra la gente, ma mi piace stare con le persone, mi piace quando pensano cose che io non penso, mi piace anche quando mi dà fastidio quello che pensano ma lo vivono in modo organico. Mi piace non sapere cosa aspettarmi e mi piace immaginare cosa pensano gli altri e vedere se indovino. Mi piace giocare a leggere le persone che conosci e anche quelle che non conosci. Mi piace ricredermi.

Mi piace farlo mangiando assieme, condividendo uno dei principali momenti animali. Mi piace parlare con le teste umane e condividere con loro gesti animali. Mi piace ricordarmi che non sono che una scimmia poco pelosa. Mi piace vedere chi si atteggia a non esserlo.

Mi piace ripensarci quando è finita, rielaborare le voci e rivivere i momenti. Mi piace poi stare per i cazzi miei o ridurre il contesto a pochissimi intimi, o anche no...
Ho bisogno anche di un circolo ristretto, ma amo allargarlo per qualche ora ed espandermi io stesso con esso, purché non si allarghi troppo, perché fra la gente mi perdo e non sto bene.

Questo mi serve per vivere bene, in prima istanza.

...e sì, anche del buon vino.
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30 agosto 2016

CORS, apache e jQuery, ovvero "il triangolo di ajax"

Cosa sono le chiamate CORS? 

Le chiamate CORS (cross-origin HTTP request) sono da sempre una bestia nera di cui il programmatore medio del web sa poco o niente.
Nella sostanza si classificano come chiamate CORS tutte le chiamate a servizi che risiedono su un dominio differente da quello della pagina che origina la chiamata.

Se dalla splendida homepage del mio sito:
http://miosito.mio/index.html
voglio chiamare un servizio sul server del mio amico all'indirizzo:
http://serverdelmioamico.suo/servizio.php

La chiamata tipica ad un servizio tramite ajax con jQuery è:
  $.ajax("http://serverdelmioamico.suo/servizio.php",
    {data:jsondidati,
     success:function(data){ //qualcosa col risultato}
  });

questa chiamata ricade nella categoria CORS.
Cosa significa? Che il browser la effettua, la chiamata arriva al server che la elabora e invia la risposta, il browser riceve la risposta e....la scarta.
Perché? Perché di default le chiamate CORS sono disabilitate dal browser e dal server, per motivi di sicurezza.


Come si abilitano le chiamate CORS?

Servono 2 interventi, uno sul client e uno sul server. Il client deve dichiarare di fare una CORS, il server deve acconsentire al client dicendo esplicitamente che acconsente alla richiesta.
Spezziamo quindi l'intervento in 2 parti.

Abilitazione sul client (jQuery)

Il client aggiunge un parametro che consente a jQuery la corretta gestione della chiamata, in termini di header inviati e gestione della risposta. La chiamata usata sopra a titolo d'esempio, diventa:

  $.ajax("http://serverdelmioamico.suo/servizio.php",
    {data:jsondidati,
     success:function(data){ //qualcosa col risultato},
     xhrFields: {withCredentials: true }
  });

Perché questo funzioni è opportuno usare almeno la versione 1.5.2 di jQuery, cosa che, di questi tempi, è assai probabile, ma in caso di vecchio codice da estendere potrebbe non essere scontato.

Abilitazione sul server (Apache)

Prima di tutto è indispensabile abilitare il modulo headers di apache (a2enmod headers su debian e ubuntu).
A questo punto la via semplice, se tutto funziona, è aggiungere un header sul server. Assumendo che si tratti di apache 2.4, l'operazione è piuttosto facile. Nel VirtualHost, o nel file ".htaccess" basta aggiungere la riga:

Header set Access-Control-Allow-Headers "*"

I dettagli sono qui (http://httpd.apache.org/docs/current/mod/mod_headers.html)*.
Nella sostanza questa riga imposta all'header della risposta una informazione che dice: non importa chi mi chiama, a me va bene comunque, browser caro, mostra pure la risposta.

Questa operazione apre il servizio a tutti i chiamanti, senza restrizioni. Per fare in modo che le chiamate siano limitate a quelle provenienti da pagine del server "http://miosito.mio/", la riga dovrà essere:
Header set Access-Control-Allow-Headers "http://miosito.mio/"

Giusto per stare sicuri si possono aggiungere queste 2 righe

Header add Access-Control-Allow-Headers "origin, x-requested-with, content-type"
Header add Access-Control-Allow-Methods "PUT, GET, POST, DELETE, OPTIONS"

Che dovrebbero essere autoesplicative, ma nel dubbio dicono che si permette l'accesso se la chiamata arriva con uno degli header e uno dei metodi elencati fra virgolette.

Purtroppo l'intreccio delle regole di chiamata fa si che questa base non sia sufficiente se vogliamo che il chiamante non sia limitato ad una sola origine (cioè se siamo nel caso in cui ci serve "*" invece di un nome server specifico).
La richiesta withCredentials infatti richiede che Access-Control-Allow-Headers abbia come valore il server d'origine e non un wildchar ("*"), ma togliendola il server non manda l'header per abilitare la CORS.
Quindi serve un piccolo sforzo in più lato server, una volta per tutte.
Il server deve leggere il,l'origine del chiamante (comprensivo di protocollo e porta) e usarlo per impostare l'header di risposta.
Questa operazione, apparentemente ardua, si risolve in realtà con uno sforzo piuttosto piccolo (a sapere come), basta tramutare la nostra riga in:

SetEnvIfNoCase Origin "https?://(www\.)?(.*)(:\d+)?$" ACAO=$0
Header set Access-Control-Allow-Origin %{ACAO}e env=ACAO

Questa diavoleria legge l'header Origin, controlla se ha l'aspetto indicato (che poi è qualunque cosa inizzi con http:// o https:// e mette il valore in una variabile (ACAO, visto l'amore degli informatici per gli acronimi).
L'header a questo punto viene impostato con il valore della variabile ACAO, che poi è quello dell'origine.

Giusto per stare sul sicuro si può aggiungere

Header set Vary Origin

agli header restituiti, che serve a gestire alcune situazioni piuttosto particolari, ma visto che male non ne fa, tanto vale averlo.

Il blocco complessivo diventa:

SetEnvIfNoCase Origin "http(s)?://(www\.)?(.*)(:\d+)?$" ACAO=$0
Header set Access-Control-Allow-Origin %{ACAO}e env=ACAO
Header add Access-Control-Allow-Headers "origin, x-requested-with, content-type"
Header add Access-Control-Allow-Methods "PUT, GET, POST, DELETE, OPTIONS"
Header set Vary Origin


Ultima nota: se si vuole aprire ad una serie di server e non a tutti, la riga del SetEnvIfNoCase deve essere modificata di conseguenza. Per fare un breve esempio, se vogliamo che a chiamare possa essere miosito.mio con tutti i suoi domini di terzo livello (es: test.miosito.mio, prova.miosito.mio, blog.miosito.mio, ...) e serverdimiocugino.suo con i suoi domini di terzo livello, la riga diventerà:

SetEnvIfNoCase Origin "http(s)?://(.*\.)?(miosito\.mio|serverdimiocugino\.suo)(:\d+)?$" ACAO=$0

Si tratta (come l'altra, del resto) di una espressione regolare, che si legge più o meno così:
http con o senza "s" seguito da "://", eventualmente qualcosa, ma se c'è deve essere seguita da un ".", (come potrebbe essere "www.", "test." o altro) seguito da miosito.mio oppure serverdimiocugino.suo, seguito eventualmente da un ":" e dei numeri (indicazione della porta).


* Una piccola nota a riguardo per chi giustamente ha scelto di saltare il manuale: "Header set" imposta un header, mentre "Header add" lo aggiunge. Ai nostri fini la differenza è probabilmente nulla, ma i problemi sorgono quando da codice viene già impostato l'header in questione. Nel caso di "add" l'header viene raddoppiato (e alcuni client un po' permalosi non la prendono bene, specie se non hanno lo stesso valore), mentre "set" sovrascrive il valore. Esistono anche "setifempty", che imposta il valore solo se non era già presente e "merge" che prova ad estendere una lista di valori per gli header a valore multiplo.
La realtà è che manipolare gli stessi header a livello di codice di servizio e di configurazione del web server può portare a una serie di situazioni impreviste e richiede un coordinamento che difficilmente si mantiene nel tempo. Sarebbe buona norma quindi decidere a priori quali header siano da impostare a livello di apache e quali a codice, evitando sovrapposizioni, dove non sia strettamente necessario.
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25 agosto 2016

No One Wished To Settle Here

Oggi mi piace pensare che il qui di cui si parla non sia un luogo fisico, bensì concettuale.
In particolare un "qui" artistico, come metafora di un qui dell'anima, troppo astratto per essere identificato.



Ogni volta che ascolto questo brano, mi si illumina dentro qualcosa, entro in risonanza col lo straziante disagio che esprime questo pezzo e, oggetto di una catarsi inevitabile, mi elevo di un gradino, vedendo come tante cose che normalmente trovo molto belle siano in realtà poca cosa a confronto con certe pietre miliari. Mi ritrovo sulla torre d'avvistamento di un muro di confine.
Fuori l'ignoto, dove vanno gli avanguardisti, gli avventurieri, ma anche alcuni disadattati o reietti a modo loro illuminati.
Dentro i territori conosciuti e colonizzati, ricchi di agi, dove le sfide sono mitigate da un contesto accogliente quanto ovattante.
La zona di confine è un luogo particolare, perché da lì si può osservare il selvaggio mondo inesplorato, restando riconoscibili e a contatto con chi vive entro i confini.

Nessuno ha voluto insediarsi qui, sui territori di confine.

inconsistenti miraggi.
Inizia quindi per i grandi, quelli veri un percorso che va oltre la frontiera e li porta in territori inospitali, da cui magari torneranno, ma saranno così cambiati da non essere più quelli che erano arrivati alla grandezza comunicabile. In genere quando tornano sono dei "selvaggi" che hanno scelto di tornare all'agio, ma ci staranno per sempre stretti, ma accettano di restare delle copie sbiadite di loro stessi, in cambio della quiete dei luoghi noti.

Alcuni ci arrivano con uno sforzo incredibile, una volta nella vita, e non sono in grado di restare lì, ma non perché non possano, bensì perché non vogliono sostenere l'immenso sforzo dell'anima che è partorire un'opera immortale, restare sempre con un occhio sulla vastità oltre il confine senza attraversarlo.
Si ritirano, allora, in territori meno gloriosi, illuminati comunque dalla grandezza a cui sono giunti almeno una volta nella vita e contemporaneamente sollevati dal peso che deriva dalla creazione di capolavori unici.

Nessuno vuole insediarsi qui, in questa landa di confine.
Nessuno l'ha voluto fare.
Il confine estremo non è un luogo dove insediarsi: o si va oltre in un viaggio d'esplorazione in cui ci si potrebbe anche smarrire o si torna indietro.

No One Wished To Settle Here.

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5 maggio 2016

Riflessioni su ciò che si dovrebbe

La mia bella è solita nelle sue frasi esprimere opinioni sul comportamento degli altri. Credo sia un comportamento normale (al di là del come e quanto esternarle) quello di avere opinioni sugli altri e sulle loro azioni.

Ascoltandola mi sono reso conto di alcune sfumature che mi hanno aiutato a capire degli snodi di ragionamento importanti. Lei usa spesso il "dovrebbe" riferito al comportamento dell'altro, ma in generale quel dovrebbe può avere almeno 2 sfumature distinte: dovrebbe nel senso che mi aspetto che lo faccia o dovrebbe nel senso che ritengo "giusto" che lo faccia.
Lei usa spessissimo la seconda accezione, mentre io sono più portato ad usare la prima, anche se sporadicamente uso anche la seconda. Questa differenza mi porta a riflettere sul rapporto con "l'Altro", con la a maiuscola, ciò che è fuori da me.

Io mi aspetto un comportamento dall'altro basato su come lo conosco, cioè al di là del mio giudizio: analizzo (parola fondamentale nel mio modo di rapportarmi a tutto) ciò che è fuori da me, cerco di capire le sue dinamiche. In questa fase non c'è (ancora) un giudizio di alcuna natura, ma solo una osservazione, volta a capire i comportamenti dell'altro e da questo dedurne gli schemi di pensiero e i dogmi su cui fonda la sua visione del mondo. Su questa base mi diverto a crearmi dei film sul percorso che abbia portato l'altro a diventare quello che è, ma restano dei divertissement, senza alcun valore né analitico né morale.
Questo uso del dovrebbe è "previsionale". Solo in seconda istanza può diventare giudicante: una volta arrivato a prevedere come si comporterà posso (o anche no) dare un valore morale a questa azione ipotetica.

L'altro approccio è quello di osservare l'altro in virtù delle sue differenze da me (cioè in generale dall'osservatore) o da un ipotetico "giusto"*. Osservo ciò che l'altro dovrebbe fare in base a ciò che la mia morale mi dice che dovrebbe fare e mi costruisco un percorso virtuoso, pertanto ritenendo "buono" chi fa ciò che dovrebbe fare e "cattivo" chi non lo fa.
La mia opinione morale dell'altro osservato mi porta a prevedere se si atterrà al giusto o meno.
Questo uso del dovrebbe è "giudicante" e solo marginalmente può essere "previsionale", poiché la mia previsione dipende dal mio giudizio morale dell'osservato ed è secondaria rispetto all'identificare ciò che è giusto.
Questo è, tra l'altro, l'uso più comune del "dovrebbe" impersonale: si dovrebbe. In questo contesto l'altro non è osservabile, quindi il condizionale è una declinazione di ciò che è giusto, ma non necessario. L'uso previsionale in questo contesto è il classico "ma": in un dato contesto si dovrebbe fare una certa cosa, ma credo che tu dovresti farne un'altra.
Il "dovrebbe" finalistico è a metà strada: "per ottenere un certo risultato dovresti fare una certa azione" può essere tanto una asserzione assoluta (statistica/morale), quando calata nel contesto dell'adattabilità del percorso all'interlocutore.


Al di là del tema del "triplicata scocciant"di Vadacchiana** memoria, che mi causa a volte un certo fastidio superficiale, il problema che vedo nell'esprimere sempre un'opinione giudicante è che rischia di essere il preludio di un mondo di cloni, culturalmente appiattito sull'io parlante***. Tutti dovrebbero agire come è giusto (ossia come io credo sia giusto), appiattendo la multiculturalità che rende possibile il fatto che più comportamenti possano essere contemporaneamente giusti se visti da diversi punti di vista (o giudicati secondo differenti insiemi di valori).
L'ovvio contraltare è che la visione previsionale è terribilmente asettica, sino alla noia (sì va bene, ci hai azzeccato nel prevedere, ma vorrai prima o poi dire cosa ne pensi o apriamo un sito di scommesse su quello che fanno gli altri?!)


Ecco, tutta questa è una pippa assurda e io indubbiamente dovrei smetterla (almeno sino alla prossima).




*Per gran parte della persone la giustizia è una realtà assoluta che non muta in base all'osservatore e che si basa su un sistema di valori assoluto e oggettivo (cioè il loro...). Va da sé che non condivido una simile oggettivazione dei valori, ma che lo dico a fare?

** Vadacchiano da Vadacca, mio primo docente alle superiori di storia e filosofia, con cui non ho mai avuto una grande affinità culturale, ma che fu immensa fonte aneddottica per gli ormai numerosi anni a venire. Del resto anche Bosi, mio secondo docente al liceo di storia e filosofia non fu per me un grande riferimento culturale, ma fu anch'egli fonte immensa di una ricca aneddottca, meno mitologica di quella Vadacchiana, ma allo stesso tempo più diretta. Raccontati così sembrano uno la prosecuzione dell'altro e per questo mi sento di paragonarli secondo la seguente proporzione: Vadacca sta a Bosi come Totò sta a Boldi.

*** divago un attimo, poi spiego: mi sento di dire che il Marxismo dovrebbe essere considerato come un'aspirazione asintotica e non utopistica. La lotta di classe in realtà non dovrebbe mai essere superata (l'utopia dell'uguaglianza fra le persone), ma ridotta sino a un livello di sopportabilità da parte di tutti gli schieramenti (un'assottigliamento asintotico delle differenze, che non saranno mai annullate), perché è proprio il dinamismo generato dal conflitto fra diversi stili/condizioni di vita a innescare il progresso: il desiderio di qualcuno di stare meglio, che si ottiene mediante una differenza con il resto della popolazione ed il conseguente inseguimento da parte degli altri, che non devono essere lasciati indietro, ma non non potranno mai realmente raggiungere (a meno di non superare ribaltando i ruoli) gli inseguiti.
Giusto per dire che l'appiattimento culturale non fa per me...

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19 novembre 2015

Subdoli tranelli linguistici

Dopo i fatti di Parigi tutti: dall'uomo della strada al sociologo professionista al politico al commentatore, tutti stanno esternando. Anche io quella stessa sera mi sono sentito di esternare dei pensieri e delle sensazioni, del resto...
Quello che ne esce è un mare magnum di ragionamenti politici lineari, dietrologie, paure, espressioni di pancia, contorti complottismi e chi più ne ha più ne metta.
Tutti dicono un po' di tutto e le voci si perdono nel caos, ed è proprio da questo caos che emergono delle tendenze, delle parole, dei concetti che fanno da aggregatori.

Ad attirare in particolare la mia attenzione è il concetto di estremismo, stigmatizzato come "il problema", o addirittura "il nemico".
"il problema non sono i musulmani, ma gli estremisti" è una delle frasi più ricorrenti, o ancora "non conta se musulmani, ebrei o cristiani, il vero nemico è l'estremismo".
In salsa diversa e con una punta di razzismo si sentono dire frasi tipo "non esistono musulmani moderati, sono tutti estremisti".
In chiave minore, perché si presta meno alle declinazioni e perché è un termine più complicato che "il popolino" mastica male, anche la parola "radicale" sta emergendo come sinonimo dotto di estremista.

Non molti anni fa Grillo, parlando delle prostitute presidenziali diceva qualcosa del tipo "escort niente, sono delle puttane" e proseguiva con l'acuta osservazione che la confusione del linguaggio porta alla confusione dei concetti.

Mi spingo oltre, senza bisogno di scomodare una citazione ad hoc di Chomsky che non ho voglia di cercare, nel dire che le alterazioni del linguaggio hanno una funzione di controllo.
Controllo di chi? La gente si autocontrolla? No, i post che vediamo su facebook o gli slogan ripetuti in televisione sono per lo più prodotti da pochi comunicatori e ripetuti o condivisi come mantra dalle masse.
Quello che mi arriva se tu condividi sulla tua bacheca un bel disegno che parla di "estremisti = male" non è il tuo pensiero è il pensiero di qualcuno che pensa a come rendere virale un concetto e attrarre pubblico, a voler essere buoni, o a rendere virale un pensiero che gli fa comodo, adesso o in futuro, a voler pensare male.

E come diceva Andreotti: "a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca".

Riappropriamoci delle parole per capire i concetti.
Chiedo aiuto alla sempre utilissima Treccani ed al dizionario del Corriere della sera

Radicale, 2° significato: Che concerne le radici, l’intima essenza di qualche cosa

Estremista: Chi assolutizza un concetto, una dottrina; in particolare in politica, chi ha una posizione favorevole a idee e misure estreme e radicali.

Bene, il quadro è completo.

Chi è il nemico? Gli estremisti. Chi sono gli estremisti? Quelli che non scendono a compromessi, quelli che non stanno "in centro".
In Italia chi c'è di "radicale"? La sinistra (oddio...c'è...diciamo che c'è stata, adesso io non so neppure più dove trovarla) e, visto il nome, i radicali (che anche loro, fra cambi di nome ed altre vicissitudini esistono ancora, anche se serve il microscopio per trovarli).
Chi si cerca di dire che non è più estremista, ma si è moderato? Lascio a ciascuno la sua risposta, tanto è stato il mantra alternato del potere degli ultimi 20 anni...e anche più.

Si è cominciato da tempo a dire che radicale ed estremista erano "il male", ora con opera mediatica intelligente si associano le parole a dei fatti eclatanti ed eccoci a dire che solo ciò che è moderato è bene!
Non sto dicendo che chi ha commesso gli attentati non sia estremista, ovviamente. Sto contestando il fatto che il problema sia il fatto che è estremista.

Allarghiamo la prospettiva. Chi fu estremista nella storia? Galileo, per esempio, con il suo sfidare l'ordine costituito. Washington, che ha guidato una guerra d'indipendenza, sicuramente non era un moderato.
Gandhi e Mandela si sono fatti anni di carcere e hanno subito repressioni per le loro idee, senza mai piegarle. Idee estreme, a detta del regime, e anche radicali.

Sostanzialmente non c'è rivoluzione, reale o figurata, politica o ideologica, senza estremismo. Nella storia politica forse la prima vera evoluzione che non sia passata per una "rivoluzione" pare essere l'unione europea, che infatti fatica a decollare, non per mancanza di progetto, ma perché per avvicinare poli distanti e cucirli assieme senza strappare la coperta ai bordi bisogna tirare molto molto piano. Sarebbe più funzionale strappare tutto e rifare, ma fortunatamente l'orrore di una guerra globale tiene lontane queste idee dall'Europa...per ora.

L'estremismo non è un male: è il sale dell'evoluzione. Certo comporta dei rischi, sicuramente è difficile da trattare e da gestire, ma un mondo senza estremismo è un mondo grigio e statico. Dal confronto degli estremi si genera energia.
Il mondo ha bisogno di un polo + e -, per generare la corrente che lo anima. Più ne crea, più è vivace, facendo attenzione a non far scoppiare tutto per un sovraccarico.

Dal confronto fra "boh, va bene anche così" e "sì, facciamo pure cosà, tanto non importa", non nasce nulla, ma a chi deve governare le masse fa comodo che l'estremismo sia eradicato alla base, perché la gente pronta al compromesso è meno difficoltosa da incanalare.
E quindi via alla campagna per cui estremismo = male, radicale = male, moderato = bene, il nemico = estremista, ecc...

Torniamo al punto di partenza: se non si chiama estremismo, come si chiama "il problema", come si etichetta "il nemico"? Una parola in italiano c'è, ma non la si usa mai in questi messaggi massificati. Questa parola è "Fanatismo"
Mi faccio aiutare dal dizionario del corriere, che dà una definizione molto calzante della parola

Fanatismo: adesione incondizionata a una fede o a un'ideologia fino ad annullare completamente la serenità e l'obiettività di giudizio del soggetto

E sottolineo fede o ideologia.

Ora venite a dirmi che è un caso che di centinaia (migliaia) di post che ho letto su facebook volti a dire quale sia il problema nessuno sa abbastanza italiano da trovare la parola giusta ed è solo un caso che tutti parlino solo di estremismo...





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17 novembre 2015

The Lobster

SPOILER ALERT!! SPOILER ALERT!!!

per chi non sa l'inglese: VI ROVINO IL FILM!!



Non cliccate sul leggi altro se non volete anticipazioni e saltate alla recensione qui, se non sapete di cosa parlo. veramente, fidatevi...

E poi a scrivere la recensione è la McGranitt, che a scrivere spacca!!!



Se siete qui avete superato l'alert sopra, quindi iniziamo: ho visto The Lobster, per chi non sa cosa sia, il riassunto #inpocheparole è nel link sopra, cioè, lo ribadisco, qui: http://inpocheparole.com/the-lobster/.

Se non l'avete visto NON LEGGETE e fatevi un favore gigantesco: leggete la recensione e se vi interessa ANDATE A VEDERLO prima. Poi tornate pure qui e leggete il seguito :)



Il film parte in modo geniale. Ricorda uno degli universi allucinati di Dick, immerso in una fantascienza senza troppa scienza e ma molto fanta.

La parte bella è che continua meglio. C'è un crescendo di situazioni spettacolare e tutto funziona alla grande, a patto che vi piacciano le situazioni assurde ed il grottesco.

Come dice la recensione il mondo è distopico nel modo più classico possibile, ossia aderente a un realismo formale in cui alcune paranoie già iniettate nella società reale sono esasperate.


Dopo aver mostrato "il regime", cambio di punto di vista: "la resistenza", che si identifica con la seconda parte del film.

Il film continua a scorrere in modo affascinante, anche se...perde qualche colpo. Inizia la storia d'amore fra il protagonista e quella che sin dall'inizio è la voce narrante e che poi si scoprirà essere una delle resistenti.


Terza parte: si esce dai particolarsmi (la clinica, i ribelli nella foresta), si entra nella società.

Va bene, va bene, ci sta. Il film zoppica ancora di più perché man mano che lo scenario si allarga, le pennellate sono sempre più blande e il resto è lasciato all'immaginazione, guidata dagli elementi già condivisi, ma sono troppo pochi e il livello sociale risulta freddino e piatto.


E poi, quarta parte, che potrei chiamare la sintesi, in cui il protagonista e la sua nuova compagna si ribellano e da azione e reazione cercano di estrapolare, appunto, una sintesi.


Finale.
Titoli di coda.


Ecco, il tema è che in qualche punto fra la fine della seconda parte e la terza parte, cioè chiusa la descrizione della "rivolta" e prima di chiudere la descrizione sociale (come detto incompleta), il film inizia a girare su se stesso.

Uno degli elementi più interessanti dell'utopismo negativo è andare al nocciolo della perversione, sviscerarla e mostrare che, sotto l'apparenza c'è ancora più orrore, oppure allargare il punto di vista e mostrarne l'universalità.

In ogni caso portare l'incubo a compimento.

Non necessariamente in modo esplicito e didascalico, intendiamoci, ma proprio perché si immagina un mondo e dove si iniettano come virus le psicosi sociali che si vedono in nuce nella società in cui si vive,è interessante mostrare come l'infezione possa diventare profonda o diffusa.
Si va cioè al nocciolo del problema o alla sua degenerazione universale.

The Lobster ci illude di andare in entrambe le direzioni, ma poi clamorosamente le manca entrambe.

Ci porta alla società nella terza parte, ma ne mostra solo scampoli: dove ha la possibilità non approfondisce e usa solo qualche suggestione per mostrare che qualcosa, a livello superiore, non va (i poliziotti nel centro commerciale ne sono l'emblema).

La città, però, è completamente di plastica: non ci sono persone per le strade, non ci sono attività, ma non c'è neppure controllo o repressione o....beh, non c'è nulla (si non sono scemo, capisco anche io che si parla di una società chiusa in luoghi d'aggregazione artificiale, ma qui non c'entra nulla e invece che mettere altra carne al fuoco sarebbe il caso di cuocere quella che già c'è).

La profondità è promessa dalla storia d'amore, la quale però si arena su un particolare che viene spesso citato sin dalla prima parte e per me non è ben comprensibile: l'ossessione per avere qualcosa di identificabile in comune per poter costituire una coppia.

Perché? Qual è il pensiero dietro questa ossessione? Qual è la causa di questa regola assunta universalmente?

Non si capisce, non si dice, non si accenna neppure. La si dà per scontata.

Risultato: la profondità si perde al primo strato, dove c'è un assioma dogmatico assurdo senza ragione apparente.

Stiamo parlando di una ossessione del mondo moderno esasperata a dogma esistenziale? Io, sinceramente, non la vedo: intorno a me vedo un mondo felicemente meticcio da tutti i punti di vista. Sì, certo, ci si conosce spesso grazie a qualcosa in comune, ma ci si ama, a volte se non spesso, grazie a qualcosa di complementare.


Ricapitolando doppio fallimento: non si allarga alla società per mancanza descrittiva e non si va in profondità perché non si supera lo scoglio del dogma senza spiegazione.

Il film quindi non ci sbatte contro le nostre perversioni o le nostre paranoie, ma semplicemente racconta un mondo che da fantastico diventa semplicemente inspiegabile e il patto narrativo scricchiola, quasi spezzato.


Potrebbe restare una buona storia, ed in effetti sin quasi alla fine lo è.
Il finale però (spoiler alert, spoiler alert!!!) non mantiene le promesse: si chiude prima della scelta decisiva, lasciando sì il finale aperto alle fantasticherie dei singoli spettatori, ma ancora una volta fallendo sul piano comunicativo.
Quella scelta che il protagonista non fa, puzza di scorciatoia, perché non avrebbe affatto chiuso il finale, ma avrebbe obbligato il racconto a schierasi sul peso quell'inspiegabile dogma ha sul mondo, o almeno sull'universo interiore del protagonista.


Ovviamente questi fallimenti non sono dei motivi per dire che il film è brutto (e, chiariamoci, non lo è), ma sicuramente costituiscono dei problemi che canonicamente sono riservati ai film che non fanno del contenuto la loro forza, dove quindi hanno un peso minore.

Siccome qui a farla da padrone è sicuramente più la sostanza che non la forma, è fastidioso vedere che a conti fatti affascina più la forma della sostanza, che pur sorretta da una visionaria fantasia, risulta annodata sul paradosso in modo sterile.

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14 novembre 2015

Riflessioni sui fatti di Parigi (anche se non sembra)

Non so bene neppure come commentare. Il mio cinismo e la mia esasperata razionalità mi allontanano dal riflettere sui numeri come discrimine. Cercare il bene e il male fuori da sé, o il giusto e lo sbagliato, l'ho sempre visto come uno specchio del non riuscire a definire da soli la propria via e, ancor peggio, del non assumersi la responsabilità profonda e completa del proprio operato (chi mi conosce profondamente da molto sa che è un elemento fondante della mia visione del mondo in generale e della religione in particolare).
Oggi a un cliente ho detto scherzosamente che sarei stato "quello antipatico". Riflettendo sul significato profondo di questa mia affermazione mi sono reso conto che lo sono perché sono quello che strappa via la poesia dalle situazioni e impone (in primis a me stesso) di affrontarle nude e crude, finendo per trovarcisi nudi a propria volta.

Dio è un po' la poesia del mondo: aggiunge un pezzo di incanto, evoca sensazioni ed atmosfere forti ma impalpabili, rende i concetti apparentemente forti, perché interpretabili e pertanto declinabili secondo l'uso più suggestivo o più conveniente, ma in realtà deboli, perché privi di un loro proprio fondamento. Nella poesia non possiamo conoscere il pensiero del poeta, ma solo interpretarlo, spesso guidati da altri che a loro volta non lo conoscono, ma salendo in cattedra acquisiscono un potere che non dovrebbero avere. Se anche sfuggiamo al gregge, diventiamo noi stessi i nostri stessi manipolatori, in un gioco al massacro che sa di follia schizzofrenica.
Lo stesso poeta non può comunicare il concetto evocato meglio di quanto faccia la sua opera e perde potere di fronte ad eteree interpretazioni dei suoi versi, avvincenti quanto intrinsecamente fasulle (inconoscibilità e incomunicabilità,  dal sapore gorgiano, sono altri elementi caratterizzanti della mia visione del mondo, come noto ai soliti).

Il problema è che la poesia, al di là della sua occasionale bellezza e sintesi comunicativa, se diventa il modo di descrivere la realtà invece che un'espressione artistica a suo corollario, si rivela essere un artificio per giustificare la propria mancanza di conoscenza e soprattutto la resa incondizionata nella ricerca di questa stessa conoscenza. La poesia è e deve essere un piacevole di più, forse il più piacevole dei lussi superflui.

Se la poesia non può essere eliminata senza far crollare il castello che agghinda significa che da orpello si è mutata in fondamenta e che il castello si posa su basi fittizie, se non false.

Tolta la poesia da ciò che ci circonda resta una sola cosa da fare: affrontare il mondo là fuori, senza scuse, senza ipocrisie.

Tolto dio dal nostro mondo resta una sola cosa da fare: affrontare se stessi, senza scuse, senza bugie.

Tolto dio quei morti sono un abominio ingiustificabile, e quindi lo si aggiunge nel sistema per far tornare i conti.
Ma dio non è un numero e non può risolvere nessuna equazione dell'animo umano, perché dio non può che essere poesia.

Oggi dio è una poesia tanto evocativa quanto il vuoto che nasconde...ed eccezionalmente brutta.
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