8 dicembre 2013

Mandela e la mia ignoranza

No, tranquilli, non è che penso che "I have a dream" sia una sua frase simbolo. La mia ignoranza è diversa dalla sua.
Però la celebrazione per la morte di Mandela, mi fa riflettere sul fatto che anche la mia ignoranza è alquanto profonda, sebbene non abissale.
Cosa so io veramente di Mandela?
Sostanzialmente nulla che non siano idee confuse e fatti vaghi.
Ricordo che fu un attivista anti-apartheid, che subì una lunga incarcerazione per reati correlati alla sua attività politica. Che è diventato un simbolo di questa lotta, che una volta uscito di prigione andò al potere mettendo fine al dramma della segregazione razziale coatta in sud africa. Più interessante ancora ricordo che ha combattuto anche contro il razzismo di ritorno che si verifica spesso quando l'oppresso esce da questa situazione e sogna di poter diventare oppressore a sua volta, non per razzismo, ma per senso di rivalsa.
Lo ricordo come un uomo carismatico nei suoi discorsi e come una persona veramente di pace, non come una bestia feroce che ha lottato contro un potere opprimente così a lungo da diventare peggio di ciò contro cui ha lottato.
Lo so collocare storicamente e geograficamente in modo corretto, e a grandi linee ricordo la sua "presenza culturale" negli ultimi 15 anni circa.

Va bene, sì...circa ci possiamo pure essere, ma...chi cazzo è Mandela?
Un uomo non è questo...così ho tratteggiato forse migliaia di oppositori politici, che magari non hanno raggiunto il suo livello di potere, ma hanno vissuto un percorso analogo nello stesso periodo.
Ricordo qualche cosa di Mandela che è proprio sua, però non basta.

Ieri sono inciampato in un tweet che citava Lenin e che mi ha fatto riflettere. Il passaggio del Vladimir Ilic è il seguente:

"Le classi dominanti hanno sempre ricompensato i grandi rivoluzionari, durante la loro vita, con implacabili persecuzioni; la loro dottrina è sempre stata accolta con il più selvaggio furore, con l’odio più accanito e con le più impudenti campagne di menzogne e diffamazioni. Ma dopo morti, si cerca di trasformarli in icone inoffensive, di canonizzarli per così dire, di cingere di una certa aureola di gloria il loro nome, a "consolazione" e a mistificazione delle classi oppresse. Si svuota di contenuto il loro pensiero rivoluzionario, se ne smussa la punta, lo si svilisce. La borghesia e gli opportunisti in seno al movimento operaio si accordano oggi per sottoporre il marxismo a un tale trattamento".


Da queste parole alcune considerazioni. Su tutte il fatto che Lenin le sapeva tutte (e chi ne dubita, a torto, smetterà di farlo dopo aver letto cotanta sua citazione: "Se gli operai tedeschi volessero occupare una stazione, prima, bravi bravi, comprerebbero il biglietto.") . Oh, cazzo, ma proprio tutte..sì, perché il passaggio è tratto da "Stato e Rivoluzione" del 1917, quindi ha circa 100 anni, ma come aveva capito bene il potere lui e come aveva saputo spiegarlo è così profondo che il potere, in un secolo, non ha saputo riformarsi neppure nell'apparenza o nella forma.
La seconda, più a tema è: ma io conosco il Mandela "rivoluzionario", il Mandela presidente, il Mandela personaggio pubblico o il Mandela che il potere ha voluto farmi conoscere.
La differenza principale con quanto descritto da Lenin è che Mandela ha vinto la sua battaglia rimanendo in posizione visibile a lungo. Il potere, dunque, si è dovuto riassettare con lui ben prima della sua morte. E lo stesso Mandela ha dato una visione della sua vita, ma l'ha data dalla posizione in cui era una volta arrivato al potere.

Ma che cazzo, era un pacifista a tutto tondo o da co-fondatore dell'Umkhonto we Sizwe si era un po' rotto il cazzo di farsi prendere a calci nelle palle dal potere e cominciava ad aver voglia di restituirne qualcuno? Era un santo o era più semplicemente un uomo che aveva valutato le opportunità di un braccio di ferro rispetto a quelle di un confronto pacifico e si era fatto delle domande, dandosi delle risposte?

Alcune cose, per fortuna le so...o forse mi illudo di saperle. Non è di lui in particolare che voglio parlare, ma della mia ignoranza, che probabilmente è anche la vostra. 
Biografie di persone che hanno fatto la storia conosciute per sommi capi, spogliate dei dettagli che fanno la differenza (e ovviamente di quelli che sono veramente solo dettagli), sono biografie vere, sono significative o sono quelle che il potere ci dà per ammansirli post-mortem?

Per dirne alcuni dei più visibili: Malcom X è un personaggio molto più controverso di quanto non si pensi, e Martin Luther King è molto più complesso di un discorso. E Lenin stesso? Un uomo immenso, in tutte le direzioni (non solo quelle positive, intendiamoci) ricordato dai più come un nome lontano privato della sua carica rivoluzionaria e lasciato come simbolo di un fallimento, spauracchio per i bambini e per i politici non allineati ad un nostro (per fortuna) ex presidente del consiglio. 
E Iqbal Masih? Sembra più un mito che un bambino morto. Sembra l'emblema di ciò che dice Lenin: 
un'icona senza corpo, una rivoluzione smussata nel pressapochismo e, nella sostanza, una punta smussata, seppur tramite la venerazione. 
Ovviamente potrei approfondire, ma, altrettanto ovviamente, non posso approfondire tutto. Alcuni di questi (e altri) personaggi li ho approfonditi, ma quanti li ho approfonditi valutando le fonti? Quanto tempo mi richiederebbe approfondirli tutti?


Della Birmania, dell'Ucraina, della Russia, della Korea del Nord, della Somalia...che cazzo ne so? E tu che leggi che ne sai? Personaggi trattati con superficialità passano sugli schermi...ma non è la televisione il male. I media in generale: giornali, radio, Internet; offrono visioni ammansite di problemi lontani. 

Non potrebbe essere altrimenti, ma il dubbio di star ascoltando ciò che il potere vuole raccontare rimane...
...e rimarrà sempre sin quando si confondono le idee con le persone e si sente la necessità di mitizzare i portabandiera per non abbandonare l'idea che, magari in modo imperfetto, portano avanti.

Read more

3 dicembre 2013

ProFTPd

Dopo secoli torno a parlare di tecnologia e lo faccio nel modo più classico del mondo: sono inciampato in un argomento apparentemente banale, in realtà spinoso. Uscitone vittorioso, ne condivido il percorso, per la gioia di grandi e piccini.

Task: installare un server FTP su una macchina linux e configurarlo per degli accessi da utenti specifici.
Livello di banalità apparente: 10/10
Sbatti reale: 1000

La prima cosa è scegliere quale server installare. La macchina ha su Debian e la scelta si gioca principalmente fra ProFTPd, PureFTPd e vsftpd. Qui un breve confronto fra i tre concorrenti.
Per ragioni che non sto a sviscerare scelgo ProFTPd.

NOTA BENE: questa non è una guida alla configurazione sicura e ottimizzata del serer proFTPd e non intende esserlo, ma è solo una guida veloce a come risolvere dei problemi comuni senza perdere ore su internet e vagare per mille pagine di manuale, dando invece una visione organica e funzionale in pochi minuti.

L'installazione è banale come un semplice

apt-get install proftpd-basic

Un attimo e siamo online...e invece? E invece scegliendo per un server gestito da xined invece che standalone ci si butta in un piccolo delirio che non vale la pena di affrontare: le risorse occupate sono oggettivamente così poche che vale la pena tenerlo acceso e risparmiarsi lo sbatti.
Quindi, nella configurazione ( /etc/proftpd/proftpd.conf ) bisogna assicurarsi di avere la riga:

ServerType                      standalone

E con questo, magia, parte.
Primo accesso con un utente di sistema e tutto funziona. Ma come si arginano gli utenti a non andare in giro a curiosare per il mondo?
La cara vecchia impostazione dei permessi potrebbe pure essere una strada, ma non è praticabile, perchè significa precludere agli utenti locali di girovagare per il sistema. Quindi?
Quindi la risposta è in questa riga nel file di conf:

DefaultRoot ~

Ossia gli utenti si trovano ad avere la loro home ( ~, appunto, per chi non ha dimestichezza) come root, durante il loro accesso ftp. Da lì non si esce. Ci sono degli effetti collaterali, in questo, che sono ben spiegati in questa pagina sul chroot.

Per riavviare il server basta il solito:

/etc/init.d/proftpd restart

Fatto?
No, a meno che non vogliate creare un utente di sistema per ogni utente ftp, cosa che a volte va bene e a volte no.
Qui parte uno sbatti facile, ma lungo e articolato, se non ci avete mai avuto a che fare.

Step 1: abilitare l'autenticazione su un file alternativo

Nel file di conf deve essere aggiunta una riga come questa:

AuthOrder                       mod_auth_unix.c mod_auth_file.c

dove mod_auth_file.c indica che proFTPd può leggere i dati di autenticazione dell'utente in un file ad hoc separato da quello delle password di unix/linux. Qui si può leggere un approfondimento, che parla anche della questione del chroot discussa prima.
L'ordine conta e quindi prima il server usa mod_auth_unix.c (verifica fra gli utenti di sitema), poi in un file esterno.
Ma quale file?

Step 2: indicare il file alternativo di autenticazione

Semplice, si fa con questa riga:

AuthUserFile /etc/proftpd/vusers.conf

si indica dov'è il file in questione. Il path è arbitrario, come il nome file. Meglio scegliere un percorso fuori dal path raggiungibile/visibilie/modificabile dagli utenti. Nel mio caso l'ho messo nella stessa cartella del file principale di configurazione.
Il file deve essere esistente e leggibile, ma può anche essere vuoto.

Step 3: popolare il file per gli utenti virtuali

Un file di utenti vuoto serve a poco. Il modo più facile per popolarlo è usare il comando ftpasswd.
Per usarlo basta scrivere nella shall:

ftpasswd --passwd --file=/etc/proftpd/vusers.conf --name=myuser --uid=15000 --home=/path/to/home --shell=/bin/sh

Il comando chiede la password da assegnare al'utente e ne mette una hash nel file selezionato, alla riga dell'utente. Se l'utente esiste già propone di modificare la password, altrimenti appende una nuova riga per il nuovo utente al file.

Dove --file indica il path al file indicato nel file di cofigurazione di proFTPd, e --uid è un qualunque uid (user ID, per i neofitissimi), anche inventato. Si può specificare anche un group id che, se omesso, è di default uguale all'uid.

La home per l'utente non viene creata, quindi deve essere un path esistente (non necessariamente subito, ma al primo accesso). La shell ha usi speciali che non interessano adesso, ma deve essere una shell esistente, quindi /bin/sh è la scelta di comodo.

Se volete che l'utente entri con lo stesso utente con cui gira apache, quindi possa leggere e scrivere in una cartella da cui legge e scrive una web-app, basta indicare lo uid di quell'utente. Per esempio, su debian/ubuntu l'utente è www-data, nel fail /etc/passwd c'è una riga relativa all'utente www-data ad cui si può prendere lo uid assegnatogli.
Stessa cosa per qualunque altro utente, se volete evitare la configurazione di dettaglio dei permessi.

ATTENZIONE: non mettete un utente virtuale con la home in una cartella in cui può fare danni. Per girare intorno al problema create nella webapp un link alla home dell'utente. In questo modo la webapp accede con percorsi relativi alla cartella ftp, ma non viceversa.


The END!
A questo punto è tutto configurato, e basta un semplice riavvio del server per vedere tutto funzionare. Volendo si può riavviare già alla fine dello step 2, dal momento che il contenuto del file degli utenti è letto dinamicamente al login.

Note di sistema
Mentre tutto va beatamente liscio usando debian/ubuntu, centOS riserva, tanto per cambiare, le sue piccole e fastidiose sorprese.
Prima fra tutte, il pacchetto proftpd NON è disponibile di default con yum.
Per usarlo bisogna seguire questi semplici step (presi in prestito dai tutorial di Digital Ocean, visto che decine di alternative simili che si trovano online non funzionano e si rischia di perdere ore alla ricerca del repository giusto...e non imbarcatevi nel download degli rpm, perchè le dipendenze sono più forti di quelle di un tossico allo stadio terminale), che sono però duri da trovare online:


rpm -Uvh http://download.fedoraproject.org/pub/epel/6/i386/epel-release-6-8.noarch.rpm

e magicamente ci appare il pacchetto...ora si può pacificamente fare:

yum install proftpd

Inutile dire che la struttura dei file di configurazione cambia, ma il senso no. Banalmente proftpd.conf non è più in /etc/proftpd ma direttamente in /etc. Fossero questi i problemi....


Enjoy ;)











Read more

22 novembre 2013

Favole: Il coccodrillo, il leone e l'aquila

Un leone e un coccodrillo stavano parlando vicini alla riva di un fiume. Stavano cercando di decidere chi fosse il più temibile dei due.
Il leone si vantava per la sua forza, la sua velocità ed i suoi riflessi fulminei. I suoi artigli e le sue zanne erano armi micidiali da cui nessuna zebra avrebbe potuto mai difendersi e le sue zampe possenti lo rendevano più veloce di qualunque bufalo in fuga!
Non senza vanità elogiava anche la bellezza della sua folta criniera che incorniciava il suo muso regale e incuteva rispetto in tutti gli altri animali.

Il coccodrillo lo assecondava, ma ribatteva anche facendo notare la moltitudine di denti acuminati nella sua bocca e la sua agilità nel muoversi in acqua e la forza dei suoi muscoli. La sua capacità di tendere agguati sulle rive del fiume era impareggiabile, a suo dire, e il leone non poteva certo dargli torto.
Con una certa baldanza vantava la sua naturale corazza che lo rendevano non solo imbattibile, ma anche terrificante agli occhi di qualunque avversario.

Mentre discutevano fra loro un'aquila li notò dal cielo e decise di andare a sentire più da vicino di cosa stesse parlando quella strana coppia. Fece un giro largo nel cielo, poi scese lentamente, volteggiando, e si posò ad alcuni metri di distanza da loro, sul ramo di un piccolo arbusto secco, giusto in tempo per ascoltarli giungere alla conclusione del loro discorso.
I due infatti concordavano che il leone era il re della pianura e il coccodrillo era il re del fiume. Insieme erano i padroni di tutto ciò che l'occhio poteva vedere e nessun animale mai avrebbe potuto mettere in discussione il loro predominio.

L'aquila fece un balzello avanti sul suo ramo e disse: siete proprio sicuri? Io non credo che abbiate considerato bene la questione...

Indispettiti i due ricominciarono ad elogiare la loro forza, abilità e bellezza, ma l'aquila li bloccò, dicendo che aveva sentito il loro discorso, ma che erano stati troppo frettolosi nel giudicare e troppo vanitosi nel proclamarsi padroni di tutto ciò che l'occhio potesse toccare. C'erano, secondo lei, degli animale che potevano benissimo sfuggire a entrambi.

Il leone ruggì furioso - sfuggire a noi? e chi mai? trova un solo animale che sia in grado di sfuggirci! Non è possibile. 
Nella sua testa già pensava a quale tipo di mostro potesse essere più forte di lui o del coccodrillo, da un lato spavaldamente si rassicurava, dall'altro aveva paura di scoprire una simile creatura.

Se te lo indico voglio essere chiamata regina anche io, anzi, dimostrandovi che io invece posso cacciarlo, voglio essere la vostra regina - disse l'aquila. Il leone e il coccodrillo acconsentirono, ma pretesero in cambio di sbranarla per la sua presunzione, se si fosse sbagliata. Avevano già l'acquolina in bocca pensando al facile pasto che si stavano per guadagnare!

Si tratta di un animale debole e indifeso - ribatté l'aquila - ed è presto detto: scommetto che non siete in grado di catturare quel passerotto su quell'albero vicino al fiume!

Il coccodrillo si infuriò, perché il passerotto era troppo in alto per lui e gridò di essere stato ingannato. L'aquila gli fece osservare quanto lui si fosse vantato, solo pochi minuti prima, della sua abilità nel tendere agguati sulla riva del fiume, cioè proprio dov'era l'albero con il passerotto. Il coccodrillo mostrò i denti, ma non poté dire nulla e dovette ricacciare in gola la sua rabbia e frustrazione.

Il leone, però, non si diede per vinto. Quatto quatto si avvicinò all'albero e inizio ad arrampicarsi con la forza delle sue possenti zampe, conficcando gli artigli nella corteccia dell'albero. Salì per qualche metro, poi iniziò a camminare su un ramo, proprio sotto a quello su cui era posato l'uccellino. Si muoveva piano, per non farsi sentire e stava con cura in equilibrio sul ramo pronto a compiere il balzo finale. Quando però ebbe fatto pochi passi,il ramo si spezzò sotto il suo peso e il leone piombò a terra, goffamente, insieme al ramo, che gli cadde sulla coda, facendolo ruggire vigorosamente.
Il passerotto fece per scappare via, ma l'aquila spalancò le ali e si avventò su di lui, divorandolo.

Un po' imbarazzato e un po' indolenzito per la caduta rovinosa, il leone dovette ammettere il suo fallimento e al contempo ammirare la grazia con cui l'aquila aveva catturato il passerotto che né lui né il coccodrillo erano riusciti a cacciare.

Sapevate di essere il re della pianura e del fiume, eppure non vi siete voluti accontentare e vi siete voluti nominare re di tutto ciò che occhio potesse vedere, ma vi siete dimenticati di guardare in alto, di considerare il cielo sopra di voi, limitando la vista a dove posate le zampe, senza alzare lo sguardo. Per questa vostra leggerezza e per la superbia avete perso anche il titolo che a buona ragione avreste meritato - disse l'aquila.

Sì, nostra regina - risposero mestamente all'unisono il leone ed il coccodrillo, feriti nell'orgoglio e ridimensionati a terra dove erano costretti a stare, mentre l'aquila spiccava il volo per tornare a volteggiare alta nel cielo.



Read more

Favole: Il nano e la talpa

C'era una volta un nano che scavava, scavava e scavava in cerca d'oro e pietre preziose. Andava giù, sempre più giù e costruiva enormi gallerie nel terreno, usando il suo fedele piccone e gli altri attrezzi che si era procurato negli anni.
Aveva già trovato alcune pietre preziose, ma non voleva accontentarsi e tornava nelle sue miniere e scavava, scavava, scavava.
Per rendere più facili le operazioni spesso costruiva dei condotti che portavano in superficie e finì per bucherellare tutta la prateria sopra alle sue miniere. Sembrava il lavoro di una talpa gigante e chi avesse visto quei buchi si sarebbe spaventato a immaginare il mostro che poteva averli scavati, se non avesse saputo che erano opera del nano. Tutti infatti lo conoscevano nella valle e nessuno si preoccupava più dei suoi buchi.

Un giorno trovò un filone di pietre luccicanti. Bramoso di arrivare alla vena principale iniziò a scavare con sempre maggior foga: scavava, scavava e scavava. Era così preso dalla bramosia che non si accorse neppure di avere davanti una parete di roccia durissima. Un colpo, un altro e poi ancora un altro e il manico di legno del suo fedele piccone si spaccò. Sbalordito e scocciato per l'accaduto, tornò in paese e comprò un piccone nuovo, completamente in metallo.
Questo certo non si spezzerà - pensò fra sé e tornò a scavare, già convinto che grandi ricchezze fossero lì, a pochi colpi di piccone da lui.
Un colpo, un altro e poi un altro ancora e la punta del piccone inizio a piegarsi, sin quando fu evidente che quel piccone non poteva più essere utilizzato.
Il nano era disperato: aveva finalmente la ricchezza tanto sognata davanti a sé e non sapeva come raggiungerla!
Fu allora che ai suoi piedi sentì una vocina che gli disse - forse io posso aiutarti.
Si guardò intorno e non vide nessuno. Pensò quindi di aver avuto un'allucinazione, ma quando la sentì di nuovo capì che veniva da vicino ai suoi piedi, così abbasso lo sguardo e si trovò di fronte una piccola talpa.
Aiutarmi? E come potresti? - chiese incredulo.

La talpa gli disse: non preoccuparti di come, ma se riuscirò a portarti qui il tesoro che cerchi ne dovrai spendere metà per comprare insalata e carote, disseminare tutta questa prateria che hai riempito di buche e coltivarla per me. Sono ghiotta di carote, sai? Più di un coniglio...e l'insalata? ah, quanto mi piace!!

Il nano accettò, ma pretese in cambio, se la talpa avesse fallito, di poterla mangiare allo spiedo. Tutti sanno, infatti, quanto i nani siano ghiotti di talpe allo spiedo. La talpa ci pensò su un attimo: era impaurita, ma alla fine accettò.
Subito si mise a cercare nella parete se ci fossero dei punti terrosi in cui fare breccia e quando trovò il primo iniziò a scavare. Dopo pochi istanti era sparita alla vista, ma poco dopo tornò indietro.
Vicolo cieco - spiegò.
Il nano fece un sogghigno e la talpa si rimise al lavoro. Trovò un nuovo punto terroso e iniziò a scavare...sparì per un po'. Quando rispuntò, era un altro vicolo cieco infatti, il nano stava preparando un piccolo falò sotterraneo, cosa che solo i nani sanno fare, senza soffocare per il fumo!

La talpa era impaurita, ma non si diede per vinta e iniziò a scavare nuovamente, questa volta verso il basso. Bucò il pavimento e sparì in fretta.
Il nano cominciava già a pensare che fosse fuggita e non sarebbe più tornata, quando un piccolo rubino grezzo rotolò fuori dal buco in cui era entrata la talpa. E poi un altro e un altro ancora!

Era ricco!

Dopo poco sbucò la talpa, portando ancora altre pietre.

Ma come hai fatto? - Chiese curioso il nano.
Ho provato prima la via facile, come hai visto, ma non ha funzionato, allora ho pensato che così non ce l'avrei mai fatta e ho deciso di cambiare strada e scavare intorno alla parete di roccia. Ho fatto un giro molto lungo, ma seguendo il bordo, sono arrivato dall'altra parte.  - disse la talpa, e dopo questa spiegazione gli ricordò la promessa.

Il nano era di parola e per quanto gli dispiacesse privarsi di metà del suo tesoro, rispettò il patto: comprò i semi e si mise al lavoro. Nel giro di qualche mese c'era un'immensa distesa di carote e insalata e la talpa, felice, banchettava con tutti su suoi amici, che aveva richiamato da tutta la valle!

La talpa era orgogliosa perché aveva imparato che perseverando si possono superare le difficoltà e che non dandosi per vinti e provando nuove strade si riesce ad arrivare a risultati altrimenti irraggiungibili.



Read more

21 novembre 2013

Favole: Il mulo e la formica

C'era una volta un mulo, che si vantava con tutti di essere il più bravo a trasportare qualsiasi cosa. Nessuno, diceva, poteva eguagliarlo, in quanto a forza e nessuno era più bravo di lui a trasportare oggetti: bastava caricargli sulla schiena il carico, anche il più difficile, e dirgli dove portarlo e lui era sempre in grado di farlo. Era più forte e più bravo lui da solo di una intera compagnia di trasportatori!
Un giorno, per vantarsi nella piazza del paese, volle dare una dimostrazione della sua bravura.

Caricatemi sulla schiena quelle bisacce di rete, piene di quei mattoni e io le porterò dall'altra parte della piazza.

Degli uomini le riempirono e le caricarono sulla schiena del mulo. Fecero fatica ad alzarle, da quanto erano pesanti, ma il mulo, come se nulla fosse, attraversò la piazza con il suo carico.

Avete visto? - disse - ...e posso fare anche di più! riempite le bisacce con quelle sbarre di ferro!

Gli uomini, meravigliati obbedirono. Dovettero mettersi in 5 a caricarle sulla sua schiena e non senza sforzo, da quanto erano pesanti, ma lui le trasportò dall'altra parte della piazza, senza mostrare neppure un briciolo di cedimento.

Sono più forte io di chiunque, nessuno è più bravo di me! Posso battere in forza e abilità nel trasporto una intera compagnia di persone!!

Mi scusi signor Mulo - Si sentì vociare. Era una piccola formichina che passava di lì e aveva sentito con quanta boria il mulo si vantava delle sue capacità - Io non sono certo forte quanto lei, eppure credo di essere più brava come trasportatrice di quanto sia lei!

Il mulo ragliò e rise: tu più brava di me? E com'è mai possibile?!? Cosa sai trasportare che io non posso? In cosa credi di essere migliore di me, piccola formichina?

La formichina spavalda raccolse un chicco di riso e lo portò dall'altra parte della piazza, poi tornò indietro e disse al mulo: lo faccia lei, signor Mulo.

Stupito e incredulo il Mulo rise e chiese agli uomini di appoggiare quel piccolo chicco di riso sulla sua schiena, visto che era così piccolo che non poteva stare nelle bisacce di rete: sarebbe scappato fuori e caduto a terra.
Una volta appoggiato sulla schiena il mulo inizio a camminare con il suo passo ondeggiante e dopo pochi passi il chicco cadde a terra. Indispettito dal fallimento inatteso il mulo chiese a un uomo di metterglielo fra i denti, in modo che lo potesse tenere ben stretto e non farlo cadere.
L'uomo ubbidì e il mulo riprese la sua marcia col chicco di riso fra i denti, ma il chicco era troppo piccolo e gli scivolo fra i denti, si appoggiò sulla lingua e subito, per istinto, il mulo lo ingoiò.

Ha visto, signor Mulo? Come le dicevo io sono più brava di lei nel trasporto.

Imbestialito il mulo ribatté che mai la formica sarebbe riuscita a trasportare neppure uno di quei mattoni dall'altra parte della piazza e che non poteva, per un misero chicco di riso, bullarsi di essere più brava di lui, se non sapeva fare null'altro.
La formica si guardò intorno e fece dei suoni, che noi umani non possiamo capire, ma per lei erano chiari: stava chiamando a raccolta le sue amiche. Subito sbucarono da ogni fessura fra le pietre altre formiche e si radunarono intorno a lei e scambiarono qualche parola fra loro. In pochi attimi si fecero largo nel groviglio della rete per i mattoni e insieme ne sollevarono uno e lo portarono fuori dalla sacca. Altre formiche arrivarono e in pochi istanti svuotarono tutta la sacca. La formichina guidò la processione di formiche dall'altra parte della piazza, poi tornò dal mulo, mentre le sue amiche tornarono alle loro faccende.

Vede signor Mulo? io non sarò forse forte quanto è lei, ma insieme alle mie amiche non c'è impresa che non possiamo compiere.

Il mulo abbassò il muso e tornò mesto alla sua stalla, avendo imparato che la forza non è tutto e che nessuno, da solo, è abile quanto può esserlo un gruppo di amici pronto ad aiutarsi.

Read more

19 ottobre 2013

Bestialità

C'è chi corre veloce come un cavallo, bisognoso di spazi aperti, e chi invece corre solo per scappare dai pericoli, come i conigli, altri invece sono lenti come lumache e si spostano lentamente, giusto senza lasciare la scia.

C'è chi con la mente vola in alto come un falco e chi striscia nel fango come un verme.
C'è chi parla come un serpente, con la lingua biforcuta e chi invece è muto come un pesce.

C'è chi tromba come un riccio, con il rischio di pungersi e chi invece è destinato a non farlo mai, come le stelle marine.

Chi non pensa mai a quello che fa e quando lo fa non ci arriva è un asino, se invece ci arriva così bene da avvantaggiarsene è una volpe.
Chi ci dorme su, senza preoccuparsene, è un ghiro, e chi scorbuticamente si fa i fatti suoi sembra un orso, protetto dal manto e dai lunghi artigli.

Se hai il coraggio di affrontare questa vita di petto forse sei un leone, se invece non te la senti è il caso che inizi a correre, veloce come una gazzella, oppure via, con un salto cambi ramo come uno scoiattolo che sfida la gravità*.
Se poi ne sei convinto puoi viverla al massimo, sino a farti bruciare, ma solo se sai di poter rinascere dalle tue ceneri come una fenice.

Se la vita non ti sorride puoi fare come lo struzzo e mettere la testa sotto la sabbia (ma ricordati che il culo resta fuori), o accartocciarti su te stesso, come un fenicottero. Oppure puoi evitare che ti guardi, camuffandoti da camaleonte.

C'è chi avalza a grandi salti, come un canguro, ma c'è anche chi va indietro come i gamberi, ma se ti rifiuti di andare avanti o indietro puoi scegliere di cambiare prospettiva camminando lateralmente, come i granchi.
Chi la prospettiva non la può cambiare forse è cieco come una talpa, al contrario c'è chi vede tutto dalla distanza con gli occhi da lince o chi fiuta i problemi da lontano, come i segugi.

C'è chi resta immobile e non sembra vivo, come un opossum** e chi si agita come morso da una tarantola, corre veloce come un leopardo e chi si muove lento e sonnolento come un bradipo.

Io sono come uno squalo, se smetto di nuotare muoio soffocato.







* Chi ha detto che è un plagio della spada nella roccia?!?!
** grazie guiduccio per il riferimento involontario ;)
Read more

18 ottobre 2013

Cazzeggio politico

Un'amica mi ha passato il link a Political Compass.
Nulla di nuovo, per intenderci...la solita sfilza di domande di carattere generale che vanno da "è giusto ammazzare i negri perché la notte al buio non si vedono, quindi sono pericolosi per il traffico" a "se tua figlia di 16 anni si compra la casa scopandosi un politico 70enne ti ha fatto risparmiare un sacco di soldi e quindi ha fatto bene". Sì, c'è anche la sezione sul sesso, ma no, non si cita mai Berlusconi.

Per ciascuna affermazione bisogna dire quanto si è d'accordo e alla fine viene fuori un posizionamento su un grafico che dice quanto sei di sinistra o di destra, economicamente e politicamente (collettivista/neo liberista e autoritario/anarchico, per usare i loro termini).

beh, io sono qui:


credo che si legga "nettamente a sinistra, con dei distinguo e fate un po' quel cazzo che vi pare, senza esagerare e possibilmente senza rompere troppo i coglioni".

Nulla di stupefacente su questo fronte. Sono di sinistra e lo so, sono favorevole a sostanzialmente qualunque cosa fra adulti consenzienti in qualunque contesto (che non significa affatto che sarei felice se una delle mie figlie, una volta maggiorenne andasse a dare il culo a quello che allora sarà un quasi 90enne con la pompetta per farsi comprare una casa, ma sono anche un po' scelte sue), ma con un forte senso della collettività, che prevale su quello dell'individuo.

detto questo mi fa sorridere che a fine test venga mostrato un grafico contenente vari politici e il loro posizionamento.
Il grafico è questo:


Mi va di menarmela un attimo con tutti quei cazzari che inneggiavano a Obama come leader progressista e salvatore delle idee di una nuova sinistra moderata nel mondo, facendo notare che è sostanzialmente un fascista. Ora, non che non si vedesse, né che ci si potesse aspettare chissà quale analisi della sua figura politica da persone che lo reputano meglio o peggio solo per il fatto di essere "bello abbronzato", come se questo fosse un pregio o un difetto e non un dato di nascita, però...
Magra consolazione constatare che Mitt Romney è ancora più fascista di Obama...del resto al peggio non c'è mai fine!!

Come nota di colore Monti è meno autoritario, ma più a destra economicamente di entrambi...

Nel grafico si vede bene come i principali leader politici siano tutti autoritari, ma del resto..chi arriva a guidare una nazione senza credere nello stato e nel rispetto delle sue leggi?
Cioè...intendo ad esclusione di Berlusconi...


Ammetto che mi turba che quello più vicino a me sia il Dalai Lama, ma mi ci posso anche abituare. Meglio lui di Benedetto XVI



PS: Sarei molto felice di vedere i vostri grafici nei commenti
Read more

10 ottobre 2013

Una passeggiata d'amore

Camminiamo spediti, lei è al mio fianco.
Un passo dopo l'altro. Teste alte. Il paesaggio è emozionante, il percorso gradevole.
Andiamo di qua. La seguo.
Guarda! Andiamo di là. Mi segue.
Percorsi, svolte, salite.
Una salita impervia. Ci aiutiamo vicendevolmente.
Lo spazio è ampio, ma lo viviamo come un dedalo: una curva, poi dritto, poi altre curve. Camminiamo.
Scorgo un bello spiazzo. Andiamoci. Dritti insieme, di corsa, ridendo.
Sono stanca. Rallentiamo.
Raggiungiamo lo spiazzo, ci fermiamo un attimo, contempliamo il panorama per qualche minuto e poi via: di nuovo avanti.
Il percorso continua, lo affrontiamo con energia.
Ancora avanti.
Sono stanca.
Dai, ancora uno sforzo.
Inizia a fare freddo e mi tiro in testa il cappuccio della felpa. Non la vedo, ma è al mio fianco.
Andiamo, dai! E andiamo.
Sono stanca, fermiamoci.
Ci fermiamo su una panchina. Comoda, accogliente, con un bel panorama. Ci riposiamo. Ammiriamo il mondo attorno, che ci sorride, mentre riprendiamo fiato.
Ripartiamo? 
Come? credevo ci fermassimo qui, sino a sera! Stavo già tirando fuori la cena...
Io, però non ho fame e non ho voglia di fermarmi, perché il sole è ancora alto e ci sono mille altre cose da vedere, mille altre cose da fare.
Credevo fosse solo una pausa per riposarci, non la meta dove fermarci. Credevo lo sapesse.
Dai, vieni...e riparto.
Lei non mi segue, ma con il cappuccio ancora alzato non me ne accorgo e vado avanti.
Sento vibrare nella tasca, tiro fuori il telefono.
Un messaggio. Ma dove sei andato?! Io sono rimasta qui. Torna indietro.
Rifletto un attimo.
Rispondo. Mi dispiace, ma sono troppo avanti, qui è molto bello e non mi pare il caso di tornare indietro.
Un nuovo messaggio: Allora aspettami.
Non posso, ho fatto troppa strada, ora che mi raggiunge sarebbe già sera e non ci sarebbe tempo per proseguire.

Ho fatto troppa strada ormai, qui è bello, ma non posso più aspettarti. Fai il tuo percorso, se vuoi vieni di qua, ma io proseguo...
Read more

9 ottobre 2013

Di razzismo e del superamento di sé

Secondo me dovrebbero mettere una rete a metà del mondo.

Perchè? Chiedo con una mezza risata, aspettandomi una battuta bizzarra.

Per dividerlo. Così chi è di là non può venire in Italia.

Shock.
A parlare è la mia piccola principessa, Sofia, 5 anni e mezzo...quasi 6. Prima elementare.
Mettiamo in ordine le idee: mondo, Italia, rete, venire qui...troppo difficile per lei.

Tesoro, dove hai sentito questa idea?
Da nessuna parte l'ho pensata io.
:(
Oh Cazzo, penso.

Ma con chi ne hai parlato prima di me?
Con nessuno, papo.
Cazzo di nuovo.
Penso.

Ok....proviamo a circoscrivere: Perché lo pensi?
Perché in classe mia c'è una bambina che non è dell'Italia. Parla poco l'italiano e la mastra le ripete le cose un miliardo di volte, ma lei non capisce.
Cazzo a ripetizione. La scuola. La compagna. Cazzo.

Da qui parte un discorso lungo e il mio spiegarle che le persone non scelgono dove e da chi nascere, quindi non ne hanno colpa nè merito, non vanno giudicate per questo, come per il loro aspetto. Che loro sanno l'italiano perché papà e mamma parlano italiano, chi viene qui con genitori che non lo parlano deve impararlo, e se si impegna per farlo, bisogna aiutarlo: sta facendo più fatica di tutti e merita quindi l'aiuto collettivo per il suo impegno e per la sua situazione. Che le persone vanno giudicate per le loro azioni, per quello che scelgono e per il loro impegno nell'attuare le loro scelte, ecc...

Ora il tema è: i concetti espressi sono troppo complessi per lei che non ha neppure capito bene cosa sia l'Italia e il mondo. A scuola hanno parlato della recente tragedia a Lampedusa e sicuramente il tema della "gente che viene in Italia" è uscito. Forse anche l'idea della rete...delle persone ripescate come fossero tonni, potrebbe essere uscita, in qualche malaugurata analogia. Come si formino le associazioni nella mente di un bambino è spesso complesso, mentre altre volte è così semplice che nessun adulto riuscirebbe mai ad arrivarci.
La compagna che parla male l'Italiano non può essere che uscito a scuola, come discorso. Da chi? Un compagno che ha ripetuto a pappagallo la frase di un fratello/genitore idiota? Un bambino più grande nell'intervallo? La maestra*?!?!? Sono mille le possibili fonti e forse lei stessa ci ha messo del suo....
Preferisco non pensare male e non farmi preconcetti, ma approfondire.

Nella mia mente, a freddo, si insinua un pensiero, un collegamento. I vestiti nuovi dell'Imperatore. Sì proprio la fiaba di Andersen.
Gli adulti adottano una serie di schermature "sociali" fra il pensiero e la parola**. I bambini, per fortuna, no.
Sofia potrebbe aver espresso un ancestrale fastidio per il diverso, una voglia di poter primeggiare.
Potrebbe aver espresso una parte istintuale e innata.

Potrebbe aver detto quello che molti pensano ma non osano dire. Addirittura quello che molti pensano senza il coraggio di ammetterlo con se stessi o senza neppure saperlo (caso vuole che solo due giorni fa scherzassi sul fatto che la maggior parte delle persone non ha idea di chi sia e non si conosce per nulla).

Potrebbe cioè aver gridato "il Re è nudo", quando i grandi lo hanno pensato senza dirlo.

Sinceramente non lo credo: ha detto una frase troppo difficile perché sia sua e troppo poco immediata perché sia spontanea, però....
Anche se fosse così, mi viene da dire, la perdita di spontaneità è veramente una perdita, ma l'evoluzione dal pensiero animale, il soggiogamento cioè di alcuni istinti naturali alla mente razionale e ad obiettivi più a lungo termine della mera sopravvivenza a cui l'istinto ci guida, non lo è.
Se anche il razzismo fosse innato*** (nell'uomo o anche solo in alcuni uomini), sorpassarlo è una parte del diventare grandi e del capire che il mondo si può vedere da mille prospettive differenti: il razzismo è solo l'incapacità di cambiare prospettiva e la paura di farlo (che poi è fonte, più in generale, della paura del diverso).

L'istinto va forgiato dalla mente, sin quando alcune cose che riteniamo (razionalmente e non in modo innato) fondanti non si vanno a incastonare nella nostra anima così in profondità da diventare parte integrante dell'istinto stesso, con cui prima cozzavano.
Possiamo modificarci nel profondo, lavorando su noi stessi. Bisogna sapere di potere, ma anche volerlo fare. E avere molta, molta pazienza.
Compito mio, in qualità di padre, è fornirle il contesto culturale in cui crescere e un appiglio per ogni idea, uno specchio in cui riflettersi quando ne ha bisogno e uno stimolo per ragionare su tutto, se non anche un aiuto per evolvere che vada al di là della sola educazione. Questo è il ruolo della famiglia, a cui è necessario che si affianchi la scuola, altrimenti l'impianto educativo è debole. Inesorabilmente. Come lo è quando la scuola non è supportata dalla famiglia.
Compito ancora più difficile è fare tutto questo aiutandola senza indirizzarla in modo coercitivo....

Sorpassare una lacuna grave come la discriminazione razziale con un solo processo intellettuale, non è sufficiente. Sin quando il superamento non è totale resta sempre lo sguardo sbagliato, la diffidenza intrinseca, il senso di paura e di superiorità.
L'istinto è importante e la nostra parte animale è fondamentale, a mio modo di vedere, ma a volte, crescendo, è indispensabile passare per un processo di ristrutturazione, nel puro spirito del destroy, erase, improve.

...che poi un problema nel sistema scolastico ci possa veramente essere, non è il tema. Ma oltre che vedere il problema bisogna trovare una soluzione soddisfacente e costruttiva.

Il Re è nudo, negarlo può essere stupido, ma invece che deriderlo varrebbe la pena di rivestirlo.



* Solo questo weekend mi ha detto che lei è nata a Milano perchè l'ha voluto Gesù. Allora le ho detto di no, che era nata a Milano perchè papà e mamma vivono qui. Questa frase che collego solo ora mentre scrivo, mi fa rabbrividire nuovamente. L'idea che un dio scelga dove si nasce è facilmente associabile all'idea che Dio di abbia messo lì per un motivo e tu lì debba stare. Idea non dissimile alla concezione delle caste per gli indù, come premio/punizione delle azioni delle vite precedenti e quindi giustificazione divina dei soprusi di alcuni su altri.
**Qualcuno dice che io ne dovrei usare di più...ma questo è un tema che affronterò presto...e sviante.
*** Non credo che lo sia in quanto tale, ma credo che la paura dell'ignoto lo sia. Da qui il passaggio per un certo razzismo (quello in realtà culturale, che solo casualmente corrisponde macroscopicamente a una differenza razziale vera e propria) è facile. Più difficile capire il razzismo propriamente detto, in una società che inzia, finalmente, ad essere mescolata, sebbene non ancora integrata.





Read more

8 ottobre 2013

Rush

Sono andato a vedere Rush, per chi non lo sapesse è un film di Ron Howard che parla della vita di Niki Lauda e della sua rivalità con James Hunt, concentrandosi sul periodo '70-'76.
Io nel '76 sono nato, quindi per me è tutto solo ricordo dalle parole di mio padre, e anche vago.
La premessa essenziale è che a me di auto e motori, non è MAI interessato nulla. Sì, ricordo che da bambino mio padre voleva che guardassi la partenza del gran premio, ma...già da ragazzo lo trovavo un inutile spreco si tempo.
Perché andare a vedere Rush, allora?
Boh, ho seguito i giudizi di pubblico e critica che, in modo abbastanza uniforme ne hanno parlato molto bene.

Stupore. Il film è una figata. La fotografia è bellissima, il montaggio esaltante all'inverosimile, l'alternarsi delle sequenze e il senso del tempo che scorre è coinvolgente come da tanto tempo non mi capitava di vedere al cinema.
Poco conta se alcuni (molti?) dialoghi sono deboli: sono così ben inseriti nel contesto che filano come delle meraviglie; poco conta che se del contesto non interessa nulla (come a me), è descritto in modo così leggero e contemporaneamente dettagliato che risulta ben definito anche per un non appassionato, senza essere pesante.
Alcune scene di corsa mi hanno ricordato in gigante la sensazione d'instabilità che ho provato nella mia unica esperienza su un go-kart e mi ha fatto immaginare come potesse essere effettivamente essere dentro a quelle casse da morto con le ruote (sì, si dice all'inizio del film che all'epoca morivano in media 2 piloti su 25 all'anno...e sti cazzi!).

Certo, forse c'è un po' di effetto boomerang: renderlo così accessibile a tutti potrebbe indebolirne l'appeal per chi quel mondo lo conosce e lo frequenta, magari ricordando anche l'epoca dei fatti...ma considerando che si parla di fatti di 40 anni fa circa, probabilmente la prospettiva riesce a restare fresca e interessante anche per loro. O almeno, non ho letto critiche da quel punto di vista. E poi si tratta pur sempre di cinema generalista, più di così è davvero difficile chiedere!

Sotto la copertina brillante forse c'è poco, l'eterna contrapposizione della cicala e della formica declinata in versione automobilistica. Disciplina contro sregolatezza, mente contro pancia. Dualismi tratteggiati sullo sfondo, che lì rimangono, piacevoli quanto poco necessari. Forse la parte più interessante resta la stima profonda nascosta sotto l'aperta rivalità. Nulla di nuovo comunque. Questo non è un film per esplorare l'anima umana (su quel fronte, fra i film che ho visto recentemente, a sbaragliare è sicuramente Vita di Pi, che dà molto spunti di riflessione ed è notevole anche Noi siamo infinito).

Una gioia per gli occhi, una carica di energia. Nulla più.
Niente meno.
Bellissimo.
Read more

7 ottobre 2013

Specchi

Se vado sott'acqua non respiro e dopo un po' muoio.
Se lo fai tu...anche (ammesso che tu non sia il primo pesce che legge il mio blog).
Questo lo so: so che questa mia caratteristica è condivisa dalle altre persone.

Se mi prendi a pugni mi fai male.
Se ti prendono a pugni, ti faccio male. Spesso. Ci sono dei masochisti che apprezzano il dolore.
Questo lo so: so che questa mia caratteristica (il provare dolore per delle percosse) è comune fra le persone. Abbastanza comune da poterla dare per scontata, non senza qualche probabilità d'errore.

Spostandomi dal mondo "fisico" a quello interiore so che esiste la paura del diverso e che, in misura differente, ne siamo tutti soggetti. Dove tutti è ovviamente una generalizzazione.
Esiste la paura della solitudine. Esiste la paura della privazione. Esiste la ricerca della felicità.

Abbiamo tanti tratti comuni.
Ma non tutti, solo la maggioranza di noi. Una maggioranza abbastanza diffusa da poterla considerare, statisticamente, la totalità. Una maggioranza, oltretutto, marginalmente diversa per ciascun singolo tratto.

Non tutto è così. Abbiamo fedi diverse, orientamenti politici diversi, molti valori di base diversi.
Abbiamo anche processi interiori diversi. Forse proprio su questi casca l'asino.

Il problema è che mentre il mondo esteriore lo esploriamo anche nostro malgrado (vediamo cioè che tutti gli uomini non hanno le branchie e sott'acqua tendono a soffocare), quello interiore è opaco.
Il nostro lo conosciamo (ecco, già questa è una generalizzazione grossa...diciamo che chi si esplora lo conosce, i più non hanno nessuna idea di chi siano, né hanno mai raccolto alcun indizio che lo suggerisca), l'altrui meno.
C'è la questione dell'esplorarlo senza che il "proprietario" ci inviti ad entrare, che è sia difficile che a volte pericoloso (a me piace un sacco farlo...), come la questione della fiducia quando invece ci viene raccontato dal diretto interessato (dove si ferma il racconto? Quante omissioni? Quante mezze verità o complete bugie?).

Mancando la conoscenza diretta, la riprova statistica e addirittura la possibilità di aperto confronto, riflettiamo.
Non nel senso che "pensiamo", ma proprio nel senso che proiettiamo sugli altri il riflesso del nostro "io", dando per scontato che l'altro di fronte a noi abbia delle caratteristiche simili e soprattutto dei processi interiori simili. Gli altri fanno così con noi e diventiamo specchi dell'io altrui, per ciascuno diverso: riflettiamo un'immagine per ciascun osservatore, l'immagine dell'osservatore stesso.
Questo ci porta a non vedere chi abbiamo di fronte, ma la nostra immagine specchiata che maschera l'interlocutore. Crediamo di capire prima di avere osservato, perché proiettiamo il nostro pensiero sugli altri e li consideriamo nostre immagini speculari.
Sempre con un po' di buon senso, certo: evitiamo di rifletterci in persone palesemente diverse. Ma non tanto buon senso, in fin dei conti: diamo per scontate cose che non lo sono affatto, e lo facciamo sistematicamente.
A volte poi consideriamo diverse persone che lo sono solo esteriormente, ma ci sono molto simili interiormente...ma questo è un altro discorso, che sfocia in altri mille discorsi (non ultimo il razzismo), che non è il caso di trattare qui.

Io sono, di natura, molto portato all'introspezione e, come scrivevo sopra, molto propenso a non farmi i cazzi miei, a guardare dietro la maschera delle persone, a scrutarne le idee e i processi mentali che portano dalla loro parte dogmatica alle idee concrete.
Questo non mi esime dal "riflettere", riduce solo drasticamente la base di elementi che do erroneamente per scontati. Il rovescio della medaglia è che scruto in angoli più nascosti, mi avvicino spesso ai miei limiti, dove ho le stesse probabilità d'errore di tutti.

Il pericolo maggiore, credo, è quello di scrutare attentamente se stessi e dimenticarsi di farlo con gli altri. Si arriva così a una profonda conoscenza di sé e congiuntamente alla totale ignoranza degli altri, fatto che paradossalmente limita molto l'autocoscienza, perché solo inserendoci in un contesto e capendo il limiti intrinsechi da esso stabiliti possiamo correttamente leggere il nostro io.
Risultato: il mondo diventa apparentemente uno specchio del nostro ego, ma in realtà ci è totalmente precluso, dagli specchi che noi stessi ci siamo messi attorno.

Paradossalmente proprio in un'epoca basata sull'immagine bisogna imparare ad osservare veramente e dare meno per scontate le persone. Soprattutto quelle speciali.

Read more

3 ottobre 2013

IVA, tasse e altre quisquilie

Va bene è aumentata l'IVA, l'impatto è evidente: tutto costa di più.
Premetto che non ho nessuna competenza specifica in materia economica, quindi faccio i ragionamenti da persona di strada istruita che lasciano il tempo che trovano, pieni come sono di facilonerie e strafalcioni teorici.

L'IVA è una imposta che pesa sul consumo in modo non progressivo. Questo la rende una tassa profondamente differente dall'IRPEF che ha una sua progressività.
Più consumi più paghi le tasse (l'IRPEF appunto, ma anche l'INPS). Se guadagni il doppio probabilmente paghi più del doppio di tasse, grazie a questa progressività.
L'IVA no: se consumi il doppio ne paghi il doppio. Questo sia che il consumo sia necessario (vestirsi), sia che sia un di più (comprarsi la nuova playstation)
Se sei da solo paghi l'IVA sui tuoi vestiti, se hai 2 figli, la paghi anche sui loro, e triplica quanto dai allo stato.
C'è un pezzo di iniquità abbastanza evidente, ma anche ragionevole.

Vista da un altro punto di vista io ho la partita IVA dal 2004 e come anello iniziale o centrale della catena, dell'IVA mi frega molto poco. Soldi che entrano e che giro allo stato, tranne qualche spesa o qualche fornitore (peraltro molto raro). Ma non intaccano nulla: i prezzi si concordano IVA esclusa, quindi...sono trasparenti, per me come lavoratore.
Se la aumentano anche chissenefrega. Lo vedo solo di riflesso se l'economia rallenta, ma...discorso infinito.

Vista ancora da un altro punto di vista, se vedo merce fatta in Italia, in Cina o in Germania, l'IVA quella è, e lo stato quello incassa. Non si alza il prezzo del lavoro in italia e non si squalifica, ancora una volta, la competitività italiana.
Da questo punto di vista, se avessero anche il coraggio di abbassare un pelo l'IRPEF, di una quota tale da fare la manovra a pareggio (invece del bancomat delle accise, come lo chiama la destra italiano, Capezzone in testa, con un ragionamento "se non del tutto giusto, quasi nulla sbagliato"), forse otterremmo quella famosa piccola spinta al rilancio della nostra economia che tutti si attendevano.

Invece aumentare tanto per aumentare...a chi giova? Nel medio neppure a chi incassa, temo. Il ragionamento secondo cui più sono alte le tasse più si evade è moralmente fastidioso, ma umanamente comprensibile.

Sono ragionamenti da dilettante, anzi, da inesperto. Probabilmente ci sono mille altri fattori da considerare che io non vedo. Mi resta da pensare che, nel mio piccolo, se mi lasciassero X euro in più in tasca, per qualcosa li userei, pagandoci l'IVA e quindi restituendoli allo stato, ma movimentando un po' di più il mercato.
Senza dimenticare che i beni necessari, di prima utilità, non sono toccati da questo aumento.



Read more

2 ottobre 2013

Elogio della sconfitta

Non si può mica sempre vincere, è fisiologico. Vincere sempre diventerebbe uno standard, per cui sarebbe indispensabile stravincere per sentirsi vincitori. Che vita sarebbe?!?
A volte si perde.
Però si può perdere in molti modi, mica sono tutti uguali. Una disfatta è una catastrofe, una sconfitta fa parte della vita. Anzi, è un momento di crescita. 
Sì perchè accettare una sconfitta significa prendere coscienza dei propri limiti, imparare ad accettare le avversità della vita. Accettarela significa capirla e, siccome in ogni sconfitta è contenuto implicitamente un nostro errore, significa capire cosa abbiamo sbagliato.
Se sono stato sconfitto, quasi sempre significa che qualcosa avrei potuto farlo meglio. Non è sempre così, però quasi. 
Io mi accetto, nella mia non perfezione, che sia chiaro! 
Mi accetto anche se non volo alto come farei se avessi vinto. 
Io accetto la mia sconfitta e grazie a questa sono più consapevole di me di chi ha vinto! Moralmente sono più vincitore io con la mia dignità di chi ha gli allori della vittoria!
Assaggio quel sapore amaro che mi insegna ad apprezzare maggiormente il dolce sapore della vittoria e mi sprona a non essere sconfitto di nuovo.
Certo avrei potuto lottare di più. Qualcuno pensa che ammettere la sconfitta sia da vigliacchi, ma non è così! Ve lo garantisco!!
Solo uno stolto non accetterebbe la sconfitta quando ormai si è palesata. Continuare a combattere in quelle condizioni significa andare contro alla disfatta e, come dice la parola, dopo una disfatta ci sono i pezzi da rimettere insieme. 
E sono tutti nel fango, non è che lo si può fare in un bel prato fiorito. 
Non è mai così!

Accettare la sconfitta, quindi, è anche un gesto di saggezza. Una prova.
Io so quando accettarla.
E chi vince sempre lo saprebbe fare? Perchè non me lo dimostra?
Io invece lo dimostro. 
Se non avessi subito la sconfitta, non avrei potuto dar prova della mia saggezza! Mi elogiavano tutti per la mia furbizia, mentre andesso non potranno non riconoscerla!! 
Sono stato fortunato a perdere, non poteva andarmi meglio: ora tutti sanno di che pasta sono fatto! La mia saggezza e la mia caratura morale sono davanti agli occhi di tutti, innegabili!

Così pensava la Volpe, dopo che i suoi balzi non erano bastati a cogliere il grappolo d'uva, ma di questi pensieri le uscì solo una frase: "Pazienza, non è ancora matura, non mi va di spendere troppe energie per un frutto ancora acerbo". Che divenne celebre, svilendo così un acuto ragionamento...

Read more

14 agosto 2013

Più pesante dell'acqua

Settimana scorsa ho scoperto di essere più pesante dell'acqua della piscina.
Non è una scoperta di per sè sconvolgente, ma mi ha colpito, perchè non credevo che fosse così.
Mi basta buttare fuori un po' più di metà dell'aria che ho nei polmoni ed affondo. Se non nuoto, se non spingo dal fondo, non riemergo.
Ho fatto provare la stessa cosa ad altri che erano lì con me, con risultati alterni: c'è chi affonda e chi comunque sta su.
Ho capito, comunque, che sono tanti quelli come me, che affondano nell'acqua dolce.

Ho provato domenica al mare e ho scoperto che l'acqua di mare mi sostiene anche a polmoni vuoti, per quanti di veramente un pelo.
Lì non affondo.

Mi sono guardato attorno, mi sono guardato alle spalle. Ho guardato davanti.
Ho scoperto che a mente piena e cuore in tempesta, in questo mondo affondo. Vado giù. Non ho ancora capito se mi basta un spinta per riaffiorare.

La mente è piena e spero che lo rimanga. La tempesta, per ora, non accenna a placarsi.

Ho bisogno di trovare il mare.




Read more

19 giugno 2013

Chi sono?

Lui poteva rispondere Bond, James Bond e con questo identificarsi come individuo in molte delle sue caratteristiche.
A Mr. Wolf andava un pelo peggio, doveva aggiungere "risolvo problemi", per far capire chi fosse: la sua caratteristica dominante, sufficiente a descriverlo nella sua interezza.
Per gli altri è più difficile.

Sono i miei pensieri o sono le mie azioni? O sono ciò che mangio?! No, dai, almeno le provocazioni vegetariane le posso escludere, per oggi.
Se ho fatto/pensato qualcosa lo sono per sempre?
Se sono in gradi di fare una cosa, ma non la faccio? Come la valuto?

L'intenzione non è peccato, è, al più, tentazione. Le tentazioni, le pulsioni, gli istinti personali mi definiscono solo se sono io ad osservarmi; sono trasparenti agli altri, sin quando non le manifesto con parole o azioni.
Sono quindi almeno 2 persone: me visto me e me visto da fuori. Preso questo cammino, sono probabilmente N+1 persone, se N sono gli osservatori.
Un passo in più e sono N+2 persone, aggiungendo un me che esiste ma che nessuno, neppure io, conosco, il me oggettivo. Inconoscibile, al più intuibile.

Facendo finta che tutto sia ora, eliminando cioè l'evoluzione, ciò che ho fatto nella mia vita non definisce ciò che sono. Definisce dei confini molto più vasti che rappresentano ciò che sono in grado di fare: ciò che potrei essere, un "io potenziale".
In questo vasto territorio, io mi posiziono. Nel tempo (qui torna l'evoluzione), scelgo un posizionamento diverso all'interno del territorio di ciò che sono in grado di essere.

Ho fatto cose brutte, come tutti. Ho fatto altre cose positive, a mio avviso. Non le reitero all'infinito, ma so di averle fatte, di essere stato in quel pezzo del mio io potenziale in un dato momento e forse di poterci tornare.
Conosco le mie potenzialità, ma non le esercito in continuazione e non mi definiscono, se non nell'ottica di una pedissequa descrizione, non pesata, di me.
L'ANSA delle mie azione le riporta, nessun editoriale le citerebbe.

Vivo nel mondo: dove mi posiziono rispetto al mio io potenziale dipende da dove mi trovo nel mondo. Fuori dal mondo vedo forse il mio io potenziale, più probabilmente un io idealizzato e che non esiste in atto, ma solo in potenza.

La risposta a chi sono non la posso trovare in me fuori dal mondo, perché fra l'essere in potenza e l'essere in atto c'è lo stesso mare che c'è fra il dire e il fare, con in più la foschia che spesso nasconde le conseguenze delle azioni...
Perchè cosa sono dipende da cosa scelgo di compiere realmente in rapporto alle persone che ho di fianco. Quello mi definisce in ogni dato momento...cosa conta che potrei fare altro?!? Serve per esempio ad aggravare il brutto di me se scelgo di compiere azioni negative sapendo di poterne fare di positive, o viceversa ad esaltare un me virtuoso se scelgo di compiere azioni positive quando avrei potuto abbandonarmi ad azioni negative.
Il mio io potenziale, cioè, mi definisce anche per il dove non sono, ma solo ai miei occhi, che so consapevolmente che avrei potuto essere in un altro luogo, ma ho scelto di essere lì, con tutte le implicazioni che questa scelta può avere.

Possiedo il libero arbitrio e scelgo cosa voglio essere fra ciò che posso essere. Questa scelta mi di definisce. Questa scelta sono io. Una stupida risposta, l'unica che fa la differenza...


...magari ogni tanto fantastico su cosa sarei se potessi...


Read more

15 giugno 2013

Moti rivoluzionari

Il cielo stellato dà sicurezza a chi lo conosce. Le stelle sono lì, immobili, a fornire le coordinate ed  il verso del mondo.
Le rivoluzioni sono fondamentali nella vita: è indispensabile a volte prendere tutto e rivoltarlo come un calzino, cambiare i riferimenti, vedere cieli stellati differenti. Lo è, almeno, per me e per chi come me non accetta di scivolare dalla punta dei peli del coniglio...lo sono per altri, inconsapevoli vittime di un inarrestabile moto.
Il problema, con le rivoluzioni è che presto o tardi ti riportano al punto di partenza, a quel cielo stellato che conoscevi perfettamente, quello stesso che volevi modificare.

La rivoluzione non è un modo per avanzare, pur nell'illusione di farlo. Può essere un valido per mettersi in movimento, certo, ma poi un moto ellittico ci riporta al punto di partenza.
Qualcuno ci mette anni, qualcuno mesi. Ad alcuni bastano un paio di settimane...e non si muovono mai, realmente.
Per questo, capendolo, a un certo punto della vita, crescendo (e soprattutto maturando, cosa che non va certo di pari passo con l'età biologica) si smette di essere rivoluzionari e si inizia a diventare progressisti. Si mira ad evolvere, cioè, non più a ribaltare tutto senza un'idea di approdo.
Avanti, sempre. Avanti, sperando che la direzione sia buona.

Per questo molti eterni rivoluzionari sembrano girare a vuoto, senza evolvere.
Perché, semplicemente, non lo fanno. Una piccola precessione del loro perielio li tiene solo aggiornati al mondo circostante, eppure immobili.

La fisica non può mutare una rivoluzione in una evoluzione: un anno siderale e il cielo stellato torna lo stesso.

L'uomo e la mente possono: cambiare orbita non è impossibile, bisogna volerlo e impegnarcisi a fondo. Bisogna mettersi in gioco ed essere disposti a perdere per sempre il cielo che dava sicurezza.

E bisogna avere un centro di gravità attorno a cui farlo, per non perdersi nel vuoto cosmico...che sia quello dello spazio o quello interiore.
Read more

12 giugno 2013

Lo slogan è (un po') fascista di natura?

Silvestri era più convinto nel cantarlo. Io un po' meno. Lui ne ha fatto uno slogan, dandosi (apparentemente) del fascista da solo.
Io ne faccio un dubbio, facendo di me...il solito uomo con molte domande e poche risposte, ma per fortuna alcune linee guida solide e profondamente ancorate.

Sabato sono andato a un concerto in favore del movimento di evoluzione/rivoluzione sociale equadoregno. Suonavano i The Gang, gli Assalti Frontali e la Banda Bassotti.
Il primo gruppo non l'ho mai degnato di grande attenzione neppure negli anni 90, quando ero più vicino a certe "manifestazioni" musical/politiche e loro avevano una risonanza ben maggiore, e ne ricordo una sola canzone.
Gli Assalti Frontali hanno contribuito con quel gran capolavoro che è Conflitto (anche questa volta dimenticato dal vivo), prima e con quell'altro gran disco che è stato Banditi ad avvicinarmi all'hip-hop e a farmi riflettere su tante cose. Non a caso Conflitto ha il suo elemento di maggiore bellezza nell'essere un disco con molte domande, molti dubbi, molto disagio, poche risposte, ma delle certezze salde e della altrettanto salde linee guida.
La Banda Bassotti è...uno slogan via l'altro: orgoglio e appartenenza. Orgoglio per l'appartenenza. Appartenenza a una idea e ad una non idea: all'idea di una società "comunista" ed all'idea dell'antifascismo come elemento di unione e coesione. Appartenenza alla lotta. Appartenenza a una collettività che costituisce un mondo alternativo. Appartenenza all'odio contro un diverso che non può che essere odiato.

Del fatto che io non sia disposto a definirmi tramite una negazione ho già parlato secoli fa, quando ancora scrivevo sul defunto yahoo 360 (rip), non ha senso parlarne ancore e sarebbe comunque un'altra storia.

Devo dire che quella fila quasi infinita di slogan mi ha fatto molto piacere. Era da tanto che non sentivo un senso di appartenenza, anche a causa dell'essere diventato sostanzialmente un orfano politico, da vari anni ormai. Era tanto che mi sembrava che quell'identità non esistesse più. Sentirla urlata e ripetuta, elevata a slogan dal palco e rimbalzata dal pubblico, mi ha dato una certa gioia.

Con tutto questo è vero che probabilmente molti nel pubblico non sapevano bene di cosa si parlasse...e forse anche qualcuno sul palco marciava più sullo slogan come elemento di cieca aggregazione che che come portatore di contenuto.

Slogan usati per fare branco, per appiattire il dialogo, per semplificare oltre la barriera in cui le differenze sono ancora significative.
Ma è uno slogan appunto. Ne è la natura. Questa natura è fascista? Un po'. In generale è molto di destra, nella sua idea che esista un noi (quelli raccolti nello slogan) e un loro esterni a noi (quelli contro cui è rivolto lo slogan), eterni e immutabili. Non punti di vista, ma realtà assolute.
Cioè "il male" descritto come assoluto e non dipendente dal punto di vista, costante ed estraneo a noi come lo descrive spesso la destra e lo descrive bene Antonio Caronia.
Lo dico subito per evitare incomprensioni, la Banda Bassotti questo non lo fa: più esplicitamente partigiana e schierata di così è difficile anche solo concepirla.

Detto questo, però, lo slogan può essere anche una semplificazione che unisce, laddove è chiaro che la verità non si ferma a quelle poche parole. Il fatto che sia un titolo, non implica che poi non si debba leggere il testo a seguire.
Se il titolo è accattivante si prova più facilmente lo stimolo ad approfondire. Se diamo per assunto che tutti quelli che ascoltano lo slogan conoscano il contesto che lo partorisce ed abbiano una condivisione di fondo, non tanto dello slogan in sè, ma di tutto il contesto di cui lo slogan è sintesi, allora si perde quel connotato "fascista" (che fascista, diciamolo pure, comunque non sarebbe, ma in Italia sembra che qualunque idea conservatrice o di destra si debba definire fascista...).

La verità, credo, sta sempre da qualche parte nel mezzo. C'è chi lo urla come coro senza sapere cosa dice e chi semplicemente festeggia la sua appartenenza con delle semplificazioni, dando per scontato, almeno in quell'occasione, tutto il contesto.

La deriva fascista di uno slogan antifascista è allo stesso tempo paradossale e tragica, eppure parzialmente inevitabile.
Compito di ciascuna persona che quello slogan lo urla, ma con consapevolezza, è diffondere il contenuto completo di cui lo slogan è sintesi. Parlare della lotta che c'è dietro. Del motivo di quell'urlo. Del suo obiettivo.

Nel nostro piccolo è d'obbligo non tagliare sulla cultura e l'educazione.

Ogni volta che un ragazzino canta, senza riflettere, che "l'unico fascista buono è il fascista morto" è mio dovere spiegargli che se non capisce nel profondo cosa significa e che è un'esasperazione e una generalizzazione utile solo all'aggregazione e non certo un inno allo sterminio di chi la pensa in modo diverso e assoluto, allora cantandolo sta solo descrivendo il suo suicidio come una cosa buona...allo stesso modo in cui Silvestri si è apparentemente dato del fascista da solo.
Read more

And the winner is....

Sì sì, ha vinto il PD. A questo giro bisogna essere veramente in mala fede per negarlo.
Non una vittoria fulgida, forse, nel senso che i demeriti degli altri hanno pesato in modo significativo.
Non una vittoria scontata, dopo il risentimento di parte dell'elettorato per le vicende di governo.
Non una vittoria insignificante, perchè se è vero che la nazione si guida dall'alto, è vero anche che la si costruisce principalmente dal basso, dal territorio, dall'amministrazione del bene pubblico nel particolare.

Ma chi ha perso?
Un po' tutti, pare. I 5 stelle fuori dai ballottaggi importanti e al lumicino in molti posti, il PDL in caduta libera, la politica in genere, a giudicare dalle affluenze.

Un pensiero, un dubbio, un'ipotesi, mi coglie al volo sentendo le analisi sui voti.
Siamo sicuri che il PD sia stato votato dagli elettori del PD? Dopo una onda anomala di elettori che avevano detto "mai più" solo pochi mesi fa, qualche dubbio viene....

Mi faccio un film: i 5 stelle, dopo un po' di eccitamento collettivo per gli esiti elettorali e la "linea dura", hanno fatto la figura dei minchioni a non voler provare a (co)guidare il governo. Sono passato da una alternativa credibile a una incredibile opposizione...al buon senso. E la gente che voleva protestare tramite loro..non è andata a votare, o magari è tornata a votare il partito d'origine.
Il PD ha deluso l'ala dura, a anche il correntone...forse giusto gli ex DC sono soddisfatti dal risultato (e io stesso che credo che il governo col PDL sia la cosa giusta da fare, non è che mi definisco entusiasta del partito, ma approvo la scelta). Fatico a pensare che abbiano veramente retto l'impatto interno...
E il PDL? Un disastro...hanno perso le elezioni, hanno appoggiato in modo intimidatorio, per non dire di peggio, un governo a guida PD.

Mi immagino che l'elettore "estremo" del PDL abbia scelto l'astensione, lo zoccolo duro non sappia neppure di essere a metà 2013 e abbia confermato il voto che aveva dato entusiasta nel '94...e il moderato forse, quello pragmatico che pensa a una guida, magari sbagliata ma fattiva, come ha saputo spacciarsi (non totalmente a torto il PDL) non ha apprezzato gli sgambetti del PDL al neo-governo, ma abbia invece apprezzato il coraggio del PD di aprire al "nemico" per la stabilità nazionale.

Nel mio film (tutto personale?), c'è stata un'emorraggia di votanti del PDL verso il PD a queste amministrative, come premio del comportamento politico nazionale del PD.
Il PD ha vinto grazie ai voti degli avversari, perdendo per strada pezzi dei suoi elettori.

Se questo è lo scenario, non c'è dubbio che sia una vittoria comunque...però ho un po' paura degli sviluppi...

PS: Fra un po' di giorni le analisi dei flussi elettorali diranno se mi sono fatto un film di fantascienza, un viaggio tutto mio o ho annusato un comportamento di una popolazione che mi pare di non aver mai capito sino in fondo....


Read more

2 giugno 2013

Persone speciali

Nella vita capita di incontrare un sacco di gente. Alcune persone interessanti, altre noiose, altre entrambe. Alcune sono frivole, altre profonde, altre fumose...
Le categorie sotto cui farle cadere sono tante e quelle più importanti sono tutte soggettive.

Sensibilità, intelligenza, stabilità, energia. Doti che ciascuno ha in misura differente e che a contatto con me posso generare armonie o dissonanze*. Le dissonanze si scartano, se non a volte; le armonie costituiscono la colonna sonora della vita che vorrei avere.

Io do molta importanza al dialogo: mi piace parlare con le persone (quasi quanto non mi piace parlare con la gente), esplorare nuovi territori intellettuali tramite il confronto verbale. Eppure le persone che fanno discorsi molto intelligenti, pur piacendomi moltissimo, non sono quelle che riescono ad essere veramente speciali per me: sono "solo" particolarmente intelligenti.

Le persone speciali sono quelle che sanno parlare, raccontandoti qualcosa che magari non è neppure particolarmente interessante o importante, inserendo delle frasi che arricchiscono il dialogo di un significato maggiore, ma di per sé non fondamentale. Quelle frasi particolari hanno il potere di entrarti dentro, scavare dei cunicoli dentro la tua testa come dei tarli e poi, trovato un angolo comodo, passare allo stadio pupale, sedimentare, sino a tramutarsi in farfalle che volano in alto e ti portano in alto con loro, facendoti rivedere il mondo con una nuova consapevolezza, da un nuovo punto di vista.
Questo processo, a mio avviso, è più forte della comunicazione diretta dei medesimi concetti, perchè non ti mette dentro il pensiero altrui, ma ti stimola a tirare fuori una nuova consapevolezza, forse già presente in embrione e sepolta**.
Molto socratico, come procedimento, in effetti.

Questa dote va al di là dell'intelligenza e non è neppure detto che vi sia collegata in modo esplicito ed evidente (secondo me è, anche, una forma di intelligenza, magari non convenzionale); si tratta piuttosto della capacità di irraggiare una profondità di spirito che attecchisce in chi è in sintonia ed è recettivo, stimolandolo a sua volta ad evolvere, fornendogli uno spunto che diventa domanda e gli fa trovare la sua risposta persona, invece che comunicargli direttamente e con tono universale "La risposta".

Queste persone***, per me, sono persone veramente speciali, perchè arricchiscono sicuramente la mente, ma congiuntamente nutrono lo spirito e lo rendono più grande.

A me, almeno, succede così.




*Parlando di armonie e dissonanze mi viene da dire che queste si generano quando io sono una nota e loro un'altra. Singolarmente abbiamo entrambi il nostro senso e bellezza, l'accostamento può essere armonioso o dissonante. Non c'è giudizio sull'altra persona (nota) con cui si genera dissonanza, solo una valutazione dell'accostamento.

**Il discorso, un po' sfumato e meno personale, si applica a qualunque comunicazione, anche non verbale e diretta, per esempio in varie forme d'arte e letteratura.

***Riprendo il discorso di armonie e dissonanze: questa "risonanza" del pensiero altrui si forma in rapporto con l'ascoltatore, quindi una personsa speciale per me, può essere banale per un altro, e viceversa. Alcuni artisti assurgono al ruolo di culti perchè hanno la capacità di instillare quella scintilla nell'animo delle moltitudini, ma anche con loro ci sarà sempre qualcuno con cui la loro nota suona male...
Read more

31 maggio 2013

D'orologi e d'amori

Quando le cose si rompono, si possono mettere a posto, si possono aggiustare. A volte l'ingranaggio rotto di un orologio può essere riaccomodato e le lancette di conseguenza, ricominciano a girare.
Qualcuno crede che questo sia vero anche per i meccanismi fra le persone, quelli che le fanno girare armoniosamente insieme, a tempi diversi, ma nello stesso quadrante.

Questa visione del mondo è tanto poetica e rassicurante quanto puerile.
Non voglio dire che nulla, quando si rompe, sia mai aggiustabile, ovviamente.
Nè nel mondo fisico (dove è evidente), nè in quello interiore, più spirituale. Solo che a volte l'ingranaggio rotto si può aggiustare, le lancette ricominciano a girare, magari armoniosamente...eppure l'orologio si era fermato e dopo, quando sarà ripartito, segnerà per sempre l'ora sbagliata.
Senza sapere in qualche modo che ora è, ed è una conoscenza esterna all'orologio rotto, non c'è modo di reimpostare l'ora giusta. Quella conoscenza presuppone una profonda consapevolezza condivisa fra tutte le parti di sè nel tempo.

Sarà un orologio funzionante, meccanicamente, ma sbagliato, nella sua sola parte essenziale.

...Guardarlo non ha più senso...
Read more

29 maggio 2013

Comunicare

Alcuni mesi fa ho portato a casa delle "scaloppe vegane", se ricordo correttamente il nome.
Parlare di "scaloppe" richiama alla mia mente il concetto di fettine di vitello, tipicamente infarinate e cotte in padella, come a me così anche ad altri, suppongo.
Vegano implica l'assenza di carne, ovviamente. Si trattava di seitan, se ricordo correttamente, ovviamente non solo...c'erano altri ingredienti..

Ora io trovo questa comunicazione, "scaloppe vegane", per del seitan lavorato con la forma della scaloppina, forse corretta, sicuramente forviante.
Da un punto di vista dell'esperienza poi, non c'è nulla da fare: il nome e la forma ricordano la scaloppa, la bocca si prepara per quello...che però non corrisponde affatto a quello che ottiene, nè in termini di consistenza, nè in termini di sapore.
Nulla di male, ovviamente: il seitan non è una mucca, non si capisce perché dovrebbe averne consistenza e sapore. Il problema nasce dal nome "scaloppa".

Ne ho parlato con un amico vegano, che non condivide la mia posizione. Non c'è voluto molto per prendere la strada della polemica e dell'assurdo iperbolico e questo mi ha portato a riflettere, ancora una volta, sulla comunicazione.

La comunicazione può essere corretta o efficace; potrebbe anche essere entrambe, ma nessuno dei due implica l'altro.
Corretta significa sostanzialmente che ciò che è stato comunicato corrisponde a ciò che si voleva comunicare secondo i significati stabiliti delle parole e le regole sintattiche della lingua (sì, si può essere corretti solo formalmente, cioè rispettare le regole della lingua, ma non esprimere il concetto desiderato, ma...è un'altra storia, un'altra pippa e comunque fuori tema). La correttezza è un concetto fortemente razionale, quasi scientifico, perché tratta di aderenza a delle regole (ben?) definite e segue un rigoroso processo di confutabilità.

Efficace significa che ha fatto capire all'interlocutore ciò che intendeva comunicargli. Non ha nulla a che vedere con la forma, quindi, non è neppure strettamente razionale, laddove il concetto da comunicare non sia solamente razionale e non è confutabile formalmente: qualunque analisi della comunicazione non può dimostrarne l'efficacia, solo l'analisi dei suoi risultati può misurarne il grado di efficacia. Siamo nel territorio dell'empirico.

Chi non conosce gli obiettivi di chi parla, non può valutare nè la correttezza nè l'efficacia di una comunicazione, nel senso che può verificarne solo al correttezza formale, ma non l'aderenza al concetto che l'autore intendeva esprimere, nè la sua efficacia, che dipende strettamente dal risultato che si voleva ottenere.
Si possono fare delle supposizioni, nulla più.

Se "scaloppa vegana" voleva dire che è un prodotto senza carne con la forma tipica della scaloppa e metodi di cottura simili, la comunicazione è parzialmente corretta (molti vocabolari citano il vitello come unica possibile fonte di scaloppe, non si sa se per comodità o è parte della definizione, tutti parlano di carne), ma piuttosto efficace. In effetti, a parte che non so quanta gente sappia cosa significa "vegano", credo sia sostanzialmente comprensibile ai più (non mi addentro qui nella fuzzificazione della funzione dell'efficacia rispetto alla percentuale degli interlocutori che hanno recepito il messaggio, il senso non cambia, la funzione sarebbe arbitraria e probabilmente differente di situazione in situazione).

Se voleva invece suggerire, oltre alla forma, una consistenza e un sapore, la correttezza è diminuita, e l'efficacia è tracollata: consistenza e sapore non sono neppure vagamente paragonabili.

L'efficacia dipende inevitabilmente anche dal target della comunicazione. Se da un lato è evidente che il target è genericamente l'acquirente del negozio (totalmente generico quindi, visto che nello specifico ero in un minimarket come mille altri, dove passa umanità molto varia sotto qualunque parametro), dall'altro è anche evidente che ci si rivolge al consumatore interessato, al potenziale cliente, e a chi passa lì per caso in contemporanea, ma con 3 risultati ed efficace diverse e probabilmente 3 intenti comunicativi diversi.

Al vegano (e vegetariano in genere), la frase scaloppa vegana dice che è un prodotto privo di fonti animali, tagliato a forma di scaloppina, cosa interessante, forse, ma assolutamente inutile: fossero stati esagoni componibili a nido d'ape non avrebbe cambiato nulla.

Al simpatizzante, il fatto che abbia la forma della scaloppina probabilmente serve a dargli dei riferimenti gastronomici, senza perdere in correttezza: gli consiglia in modo diretto e sintetico in che fase di una cena collocarla e come cucinarla. La forma di scaloppa lo aiuta a non pensare che il prodotto in questione non ha nessun rapporto col suo canonico universo alimentare, ma probabilmente il fatto che un impasto lavorato a cui si può dare qualunque forma abbia quella della scaloppa piuttosto che del birillo del bowling o del dodecaedro regolare non gli cambia molto...però preferisce la forma a scaloppa. Il fatto che poi le sue papille gustative possano subire uno shock sentendo cosa ha veramente in bocca è un problema successivo...

L'acquirente inconsapevole potrebbe essere tratto in inganno dal termine scaloppa, non sapere cosa significa vegano (eh sì, 1% della popolazione non è molto...abbastanza per averlo sentito, poco per sapere sicuramente cosa significa) o peggio ancora fraintenderlo. A questo punto la parola scaloppa fa la magia e lui compra, se poi il produttore è fortunato, piacerà anche. In questo caso è fondamentale che il prodotto abbia la forma della scaloppa e non quello di un tetraedro, altrimenti l'incanto scompare già sullo scaffale.

Se l'obiettivo era quello della comunicazione orientata alla vendita, ecco fatta la scomposizione. Se era quella di fare interessare al prodotto, il fatto di rimandare la mente del consumatore a un prodotto della stessa forma senza nessuna altra analogia lo mette inevitabilmente nella condizione di avere delle aspettative, magari solo inconsce, che poi verranno disattese. Effetto boomerang di ogni vendita fatta mediante meccanismi poco limpidi.

Io credo che la comunicazione al giorno d'oggi, abbia molto poco a cuore la correttezza e punti solo all'efficacia. Credo inoltre che quasi ogni comunicazione abbia uno o più obiettivi principali coesistenti e una serie arbitraria di obiettivi secondari.
I primi sono per lo più esplicitati o messi in evidenza, gli altri sono spesso degli spunti che arricchiscono la comunicazione.
A volte però il concetto messo in evidenza in una comunicazione non è altro che uno specchietto per le allodole, che serve cioè a poter fare la comunicazione, a poter avere un argomento comodo di cui parlare, quando in realtà gli obiettivi principali sono nascosti fra le righe, magari non troppo in profondità, in modo che raggiungano quasi tutti, ma non espliciti, per evitare censure o di essere semplicemente smascherati (sputtanati) pubblicamente.
Grillo, per esempio, fa così. Molta comunicazione populista fa così. Parla di quello che la gente vuole sentire, così raggiunge, ma dice cose che vuole far pensare alla gente, inserendole a latere o tagliando il punto di vista  in modo che i significati espliciti siano revisionati nel testo in modo sistematico.

Non è questo il caso, certo, e non lo voglio insinuare.
Qui credo che se ci fosse stata correttezza avrebbero venduto dei "seitan scaloppato", ma la dicitura volutamente ambigua aiuta a vendere un pelo di più, e al di là del tempo di crisi....come dargli torto?

Mi chiedo se nel medio o nel lungo ne avranno dei benefici...e se ne avrà il movimento vegano, posto che a loro stessi interessi.









Read more

27 maggio 2013

Hushpuppy ed il cambiamento.


"l'universo è fatto di tante piccole e fragili parti in equilibrio fra di loro", o qualcosa di simile, recita Hushpuppy, bambina protagonista di 'Re della terra selvaggia' (traduzione discutibile di Beasts of the Southern Wild). E poi ancora "basta che una di queste parti si danneggi per far crollare tutto l'universo".

Visione affascinante, forse, del mondo. Oltretutto, per quanto riferita principalmente al mondo esteriore, è estensibile a piacimento verso il mondo interiore, a cui del resto accenna.
Per certi versi è rassicurante, perché ammette un equilibrio "sostenibile" e pone l'accento sull'averne cura. Per altri versi è allarmante, perché la fragilità comporta una continua attenzione.

Io sinceramente vedo il mondo da tutta un'altra prospettiva, quindi dissento profondamente da questa visione del mondo e non mi ci è voluto neppure tanto per razionalizzare da dove mi uscisse questo senso di fastidio e di distacco.
Hushpuppy vede il suo mondo minacciato dal cambiamento, fisico e sociale. La convinzione alla base è che questo cambiamento porterà a dei disastri, ecologici in primo luogo, ma con impatti e ripercussioni su tutto e tutti.
Lo spirito ecologista del film è strano, a causa dei toni sicuramente molto originali, che lo mascherano e lo mettono in risalto insieme; lo sostengono o lo mettono in discussione. Il film è un originale film di formazione che racconta il passaggio di questa bambina particolare, nel mondo degli adulti. L'assunzione di responsabilità e consapevolezza, la sconfitta delle paure infantili in favore di un coraggio adulto, con cui affrontare la vita. Consiglio assolutamente il film, per la sua originalità, la sua poetica, la sua dolcezza, alcune sferzate al mondo "normale".... ma non posso non dissentire da molte delle tesi di fondo.

Credere in un equilibrio di base immodificabile se non a costo dell'apocalisse, significa essere, nel profondo, conservatori di uno status esistente quanto arbitrario.
Arbitrario, sì, perché non è "originario", detto che l'equilibrio originario esiste per sua definizione solo in una concezione creazionista del mondo, ma è semplicemente quello attuale (nel film) se non di una qualunque epoca passata a cui molti conservatori tendono, idealizzando ciò che fu per il mero fatto di essere stato senza averci portati all'apocalisse.
Credere che girare una rotellina di un ingranaggio potrebbe distruggere l'intero meccanismo, non è in sé sbagliato ed in alcuni casi può anche essere vero. Sicuramente prenderlo a martellate non aiuta. Ma questo significa solo che le modifiche possono essere deleterie, quindi farle a casaccio potrebbe non essere fra le scelte più sicure.

Non ammettere la possibilità di modificare l'attuale significa arrogarsi il diritto di decretare che si è raggiunto il mondo migliore possibile, o almeno che lo sforzo evolutivo non vale il risultato ottenibile. Sottende, oltretutto, che la situazione contingente sia perpetrabile in eterno.

Io leggo il mondo in modo molto diverso, in chiave dialettica: non c'è nessun equilibrio stabile e ideale, ma una continua evoluzione, in cui determinate pulsioni fanno da contraltare altre pulsioni preesistenti e ne costituiscono l'antitesi, sin dove le due forze non raggiungono una sintesi dei loro elementi caratterizzanti, che è sia l'inizio di un nuovo ondeggiare, che parte di altre pulsioni (tesi) e reazioni (antitesi) che già erano in contrapposizione prima. In parte sembra un tiro alla fune fra forze contrapposte, ma soprattutto è l'alternarsi storico di tentativi, esagerazioni, passi indietro, nuovi tentativi...un continuo cambiamento che parte da dove siamo e ci porta in un posto nuovo, non sempre migliore, ma parte di una evoluzione a cui tendiamo. Anche un minimo locale serve, in questo processo, per dare una spinta in altra direzione con la giusta forza.

Il mondo è fatto di onde continue e di infinite armoniche. Il loro ritmo non è necessariamente regolare, ed è spesso perturbato da sovrapposizioni inattese. Il gesto di "rompere" alcuni pezzi del mondo è un effetto collaterale del farlo progredire se non addirittura lo strumento grazie al quale sorpassiamo uno status quo e riusciamo a lasciarcelo alle spalle.

Non c'è vita che valga la pena di essere vissuta senza evoluzione: c'è solo sopravvivenza.

Uscendo dal sociale ed entrando nell'individuale, mi pare evidente l'importanza e la bellezza dell'evoluzione ed il suo moto dialettico.

Forse è poi così evidente, però. Del resto molti rimpiangono l'infanzia o l'adolescenza, cose se esistesse quell'età dell'oro a cui voler tornare e da dover conservare all'infinito.

Questa non è la mia visione del mondo. Non è la mia morale.

Questa mia visione è opinabile tanto quanto l'altra. Quello che emerge è il filo sottile che le rende internamente consistenti, ma delinea anche la divergenza e inconciliabilità fra queste posizioni.

E qui, come nel film, parlo del'universo, del mondo esteriore e anche del mondo interiore. Del fisico e del metafisico. Di quello strano mischione poco comprensibile che è la vita....

Read more

28 marzo 2013

Punti di luce

Qualche settimana fa ero in pista con le mie pupe e il cielo è volto a quel bianco uniforme che significa una cosa sola: neve imminente.
Sembra di essere completamente immersi nel latte, con cielo e suolo dello stesso colore uniforme.

Mi sono fermato a riflettere sulla stranezza di questa percezione. Tutto era illuminato. Tutto rifletteva luce.
C'era luce ovunque, ma non era il senso di ben illuminato. Mancavano i punti di luce, o meglio erano infiniti, quindi non individuabili. Ogni millimetro di neve o di cielo era un punto di luce.
Risultato: nessuna ombra.
Senza ombre è praticamente impossibile stabilire la struttura spaziale di un luogo. Sembra una cazzata, ma...è così.

Chissenefrega, ovviamente.
Ma è da qui che la mia mente si è mossa per il suo pippeggio quotidiano.
Mentre ero immerso in questa situazione allucinante, mi è venuto da pensare a come sia totalmente generale e si possa astrarre.

Senza dei punti di luce risulta quasi impossibile distinguere le superfici (sì per i pignoli, fra cui io, stiamo assumendo che il mondo sia  monocromatico...e che palle, un po' di fantasia, no?!?) e si è totalmente persi.
Nella neve come nella vita.
Credo che questo sia vero sia per chi cammina sulla "retta via", sia per chi cammina nel "left hand path". Indipendentemente dal proprio percorso, sono le differenze nei toni a darci il senso dello spazio attorno e a guidarci, nel senso che grazie alle differenze percettibili abbiamo la possibilità di scegliere dove vorremmo andare.

Non serve che tutto sia illuminato per capire dove andare. Nella notte può bastare un faro, anche quando c'è tempesta.
Anche i "figli della luce" hanno bisogno dell'ombra per orientarsi: nella sola luce non possono altro che galleggiare.

Che per definire un ambiente serva sempre un punto di vista è insito nel mio vedere il mondo e lo do per scontato. Non avevo mai riflettuto di quanto fosse importante invece un punto di luce: da dove si illumina la scena. Ce ne possono essere molteplici, ovviamente, ma sempre individuabili.
Ho quindi riflettuto sull'importanza di trovare dei punti di luce: non basta una luce diffusa, anzi è deleteria.

Metaforicamente parlando, persone importanti (in senso soggettivo, non i VIP, che quelli non contano nulla) e ideali (così come anche la fede, per chi ha la sventura di averla) sono punti di luce che illuminano il percorso e definiscono lo spazio. Ciascuno ha i suoi, chi più, chi meno.
La loro assenza genera un buio totale, in cui ci si può muovere solo a tentoni. L'eccesso di punti di luce però genera un mondo senza ombre, dove tutto è quasi altrettanto indefinito.

Per inciso mi viene in mentre che pensare di non essere nè di destra nè di sinistra è assurdo come essere sia di destra che di sinistra (che ovviamente sono entramabi diversi dal dire che si è di destra su certi argomenti e di sinistra su altri). Cioè è assurdo definirsi, come "spazio" intellettuale, in assenza di luce o con luce da tutte le parti.

L'importanza di questi punti di luce si percepisce forte quando se ne spengono alcuni o anche solo uno. La scena, la stessa scena che prima era illuminata da più punti di luce, dopo ne ha uno in meno e cambia, anche radicalmente: superfici illuminate diventano in ombra, angoli prima ben visibili possono diventare nascosti dal buio, interi oggetti dell'ambiente possono sparire nelle tenebre.

Quando una idea (o ideologia) si avviluppa su se stessa e muore, quando la fede si spegne, quando una persona fondamentale viene a mancare o si allontana da noi, succede questo. Un pezzo della nostra scena scompare inghiottito dal buio.
Quando troviamo l'illuminazione (eheh, sì, si dice così non a caso) di una idea brillante (e rieccoci!!), si ha la visita della fede o si trova una persona eccezionale che arriva nella nostra vita, la scena non cambia meno: compaiono oggetti, angoli e forme prima invisibili.

Oh, intendiamoci, alcune persone illuminano lati della nostra scena che non vorremmo vedere, perchè sono brutti, perchè li usiamo per buttare la spazzatura della nostra anima. A volte scegliamo di allontanarci da persone speciali per attenutare la loro luce sulla nostra vita...
Mi limito alle persone, per semplicità di narrazione, il discorso regge e chi vuole fare parallelismi ha già il sentiero tracciato.. 

Ma quando ce ne sono troppe, di persone speciali, nessuna è più speciale. Non solo perchè in un mondo di mostri nessuno è più un mostro, ma anche perchè perdiamo di vista cosa loro illuminino nella scena della nostra vita e la scena stessa diventa tutta bianca senza sfumature. La vediamo benissimo, o almeno così ci pare, ma non riusciamo più a vedere le ombre, e lo spazio si deforma, e le sagome scompaiono. Spegnendo una luce in una miriade la differenza è impercettibile...
L'effetto finale non è dissimile dal chiudersi in un mondo con solo se stessi, senza neppure una piccola lucina (e se poi noi fossimo la nostra luce e ci fosse coincidenza perfetta fra punto di luce e punto di vista? uhm...affascinante, la metafora mi ha riportato nel mondo reale per un attimo e poi mi ha scaraventato in un'altra situazione su cui dovrei riflettere...ma non lo farò, o almeno non hic et nunc).

Sulle piste da sci, i punti di luce non li possiamo scegliere. Nella vita, parzialmente, sì.
Sceglierli e selezionarli.
La selezione è un processo emozionante, a mio avviso, e spesso sottovalutato.
Read more